Sulla criminalità romana Yari Selvetella ha scritto, da solo o a quattro mani con Cristiano Armati, alcuni libri dai quali non può prescindere chi ne vuol conoscere storia, imprese e protagonisti. Erano ricerche, saggi, reportage. Ora Selvetella è approdato al romanzo. Lo fa con “La banda Tevere”, edito da Mondadori nella collana Strade blu.

Tevere è il soprannome di Mauro Urbani, chiamato così perché in gioventù s’era tuffato, per scommessa, nelle acque del fiume della capitale dal Ponte Sant’Angelo. Rappresenta un po’ il prototipo della mala romana, quella un po’ sbruffona, che vive di furti e rapine, tra bottini che finiscono presto per il gusto di spenderli tutti nella bella vita, o quella che i suoi appartenenti reputano essere la bella vita, a imitazione dei ricchi senza però averne lo stile, bruciando in poco tempo quanto hanno guadagnato mettendo a frutto colpi preparati con il mestiere imparato per la strada.

Nel romanzo di Yari Selvetella lo incontriamo ormai attempato, appena uscito dal carcere dopo cinque anni di detenzione per rapina, mentre si avvia verso la sua casa, una catapecchia di Centocelle, un quartiere popolare romano, costretto, per il suo reinserimento sociale, a prestare la sua opera in lavori socialmente utili che hanno solo il potere di deprimerlo. A fargli compagnia un cane bastardo, incrociato nel corso di questo lavoro di pulizia strade e giardini, che gli si affeziona, ricambiato, e al quale ha dato il nome di Porsche, in sfregio al Polpo, il bandito suo concorrente che controlla ora il territorio che Tevere considerava suo e che vede sfrecciare per le strade del quartiere, appunto, sulla sua Porsche Carrera.

Naturalmente, la voglia di rimettersi in gioco e sfidarlo è tanta, ma lo trattiene l’età così come la promessa fatta a se stesso di starsene un po’ lontano dai guai, tanto più che c’è un poliziotto, tale D’amato, che lo tiene d’occhio e non aspetta altro, come ha già fatto l’ultima volta, di sbatterlo dentro. Se non ché ecco arrivare sua figlia Monya, una brava ragazza della quale Tevere è orgoglioso e che ama sopra ogni cosa, che gli fa sapere di essere incinta e gli chiede aiuto, convinta della disponibilità economica paterna che, invece, è più che al verde. Ne nasce un simpatico teatrino, dove Tevere lascia credere di avere un tesoro nascosto, con il quale provvedere al bisogno e pure di più. Naturalmente, Tevere pensa già alla grande, matrimonio e battesimo con molti invitati, piatti raffinati, champagne, orchestrina. Però, una volta solo, si rende conto che sua figlia e il suo prossimo nipotino non potrà avere tutto questo. A meno che… Ed eccolo così a darsi da fare per ripescare i vecchi componenti della sua banda, tutti con i loro caratteri, caratteristiche e soprannomi: il Fachiro, Bombay, ‘Nduja, il Mastino. Yari Selvetella ce li presenta nella loro vivezza, rivelando nella filigrana dei personaggi e dell’ambiente la sua grande competenza a riguardo. Lo fa con il gusto del divertimento che riesce a trasmettere al lettore, restituendoci figure che anche una certa filmografia in passato ha reso indimenticabili.

Resta naturalmente in sospeso quale colpo realizzare. Ma la fama di Tevere è tale che un certo Rashid, marocchino, proprio al momento giusto, lo viene a cercare per proporgli un furto con destrezza a una grande gioielleria, da diventare suo complice. E così vedremo non solo dei professionisti all’opera, ma anche tutto un retrobottega che con Tevere mette in gioco poliziotti corrotti, avvocatesse dal cuore tenero, trans generosi e fidati, e leggi della malavita da rispettare, pena il morto ammazzato. Un ritratto dall’interno della mala romana, senza troppi colpi di scena e suspense se non quello finale, ma di ottima sagacia narrativa.