Abbiamo incontrato Annarita Guarnieri per parlare con lei della sua carriera di traduttrice (e non solo).

Quand’è che hai deciso di diventare una traduttrice? E, se non l’hai deciso, come ti ci sei trovata in mezzo?

Direi che la cosa è nata per caso. Ho sempre voluto lavorare con le lingue, ma per una serie di motivi ho finito per studiare Giurisprudenza. Intanto, per un’amica che non conosceva l’inglese, mi sono offerta di tradurre un libro, “The Outlaw Josey Wales” [romanzo del 1973 di Forrest Carter che sarà in Italia Josey Wales, fuorilegge, I Grandi Autori Western n. 1, La Frontiera 1980. n.d.r.] da cui era stato tratto il film di Clint Eastwood (che entrambe adoravamo) Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976).

Qualche tempo dopo averlo finito (mi ci è voluto quasi un anno!) mi è capitata sott’occhio la “lettera ai lettori” di Giorgio Cordone, della La Frontiera Editore, che aveva appena rilevato la serie western da edicola della Longanesi e chiedeva suggerimenti sugli autori da pubblicare, in quanto nuovo del settore. Ho scritto, segnalando anche di avere un western già tradotto... e una settimana dopo l’editore è venuto a cercarmi perché un traduttore gli aveva saltato una consegna e aveva bisogno di qualcosa da pubblicare. È partito tutto da lì... quando si dice il destino.

Agli inizi degli anni Ottanta dunque ti occupi dei romanzi western editi dalla casa editrice La Frontiera: ti piaceva quel genere narrativo?

Involontariamente, ho già accennato prima all’argomento. Direi che io sono “nata” dal western, come lettrice e traduttrice, essendo cresciuta a “pane e Zane Grey, Louis L’Amour, Max Brandt, ecc. ecc.”. Ho sempre amato il western, sia classico che “spaghetti”, e ovviamente adoravo tradurli. Pochi sanno (perché non è mai stato ufficialmente riconosciuto) che ero diventata anche curatrice della collana, in quanto sceglievo buona parte delle opere da pubblicare e spesso scrivevo anche le introduzioni. Purtroppo, la collana non ha avuto vita lunga, probabilmente perché il western era già allora un genere in declino.

Dal 1987 al 1992 hai curato la traduzione di circa venti romanzi di “Star Trek” per la Garden Editoriale: eri una fan del celebre telefilm o l’hai scoperto in corso d’opera?

Una fan??? Io sono uno dei sei “pazzi” che hanno fondato l’ancora vivo, vitale e prospero Star Trek Italian Club nel lontano 1986! A dire il vero, non ho solo curato la traduzione: ho tormentato il povero editore, il Signor Corno, finché non ha accettato il progetto!

Sono tuttora una fan di Star Trek, ma solo della Serie Classica... le successive non mi sono mai piaciute, il che spiega perché il mio interesse si è affievolito per anni, finché Kirk, Spock e McCoy non sono tornati alla ribalta con i due film più recenti.

Non mancano certo altri generi, come la ghost story “Lo zio Silas” (Gargoyle) e il ciclo horror di Sookie Stackhouse (Delos): come ti sei trovata a tradurli?

Il mio motto è: basta che sia scritto in inglese (ho un’infarinatura di tedesco e riesco a tradurre dallo spagnolo, ma l’inglese è la mia lingua elettiva). Il genere ha un’importanza relativa, anche se ovviamente si lavora meglio a tradurre qualcosa che piace. Mi piace il gotico, un po’ meno l’horror, ma ho adorato la serie di Sookie Stackhouse, che in realtà non era un vero horror e sconfinava di più in un urban fantasy incrociato con il giallo.

Passiamo ai tanti e grandissimi nomi del fantastico che hai tradotto per Nord e Fanucci, con una domanda “scorretta”: è più piacevole tradurre la fantascienza o il fantasy?

Non è una domanda scorretta, e il compianto Gianfranco Viviani ti racconterebbe come mi contorcevo ogni volta che mi assegnava una traduzione di fantascienza. Io non amo molto la fantascienza, a meno che non sia del genere che io definisco alla “zip-zip, bang-bang”, cioè tanta avventura e poca scienza, nello stile dei romanzi degli anni Cinquanta e di Guerre Stellari. Invece, adoro il fantasy, a partire ovviamente da Tolkien, anche se il mio autore prediletto era, e rimane, il mai abbastanza compianto David Gemmell.

Ti è mai capitato di tradurre un autore di cui proprio non sopporti lo stile? Dopo la traduzione hai poi cambiato idea?

Oh, sì, più di una volta. Quando lo stile è ostico (o l’autore scrive in un pessimo inglese... ultimamente capita anche questo), tradurre in buon italiano corretto diventa due volte più difficile, e anche il miglior romanzo diventa una fatica improba. Inoltre, preferisco l’inglese americano a quello britannico: lo uso di più a livello personale e mi è molto più congeniale.

C’è stato un testo che più ti ha fatto ammattire nel tradurlo? E uno invece che ti ha particolarmente divertito?

Anche qui, la risposta è immediata: Il Ciclo di Helliconia di Brian Aldiss. All’epoca, lavoravo ancora su macchina da scrivere, e la nomenclatura da lui scelta, straripante di “h”, di “k” e di apostrofi, mi ha letteralmente fatta impazzire, Un esempio (nome inciso a fuoco nella mia mente per tutte le volte che l’ho dovuto scrivere... e correggere), la luna di Helliconia, Irl’ich’or... non sono certa di averlo scritto giusto, sto andando a memoria. Immagina un intero ciclo di 3 grossi volumi tutto scritto così.

Il libro più divertente? Difficile rispondere, ce ne sono stati tanti. Stregone suo malgrado e Il Mago di Sua Maestà di Christopher Stasheff, per esempio, o il ciclo del Belgariad di David Eddings, o ancora il Ciclo di Videssos di Harry Turtledove. Sono state tante le volte che, nel tradurli, ho dovuto fermarmi perché stavo ridendo fino alle lacrime.

C’è stato qualche romanzo che, traducendolo, hai avuto una gran voglia di aver scritto tu?

Domanda difficile... considerato che adesso sono anche scrittrice, nel mio piccolo. No, direi di no, ma soltanto perché mi sono sempre sentita molto al di sotto dei livelli dei grandi nomi su cui ho avuto il piacere di lavorare. Ammirazione? Sì, sconfinata. Forse anche un pizzico di invidia. Ma non avrei mai osato neppure pensare di poter scrivere io opere del genere.

Ti è mai capitato di avere una gran voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto?

Questo sì, più di una volta. E in effetti, la traduzione ti permette di farlo, aggiungendo una parola qui, una congiunzione lì, magari invertendo l’ordine di una frase. Non tocchi niente del contenuto o della vera struttura del libro, ma ne esce qualcosa di più fluido e gradevole nella lettura.

In un solo caso ho dovuto proprio rimaneggiare (con il permesso dell’editore, s’intende) un intero periodo che, così com’era, non aveva capo né coda. Non faccio nomi, ovviamente, perché si dice il peccato, ma non il peccatore!

Hai avuto modo di contattare gli autori che hai tradotto? Ti sono stati d’aiuto nella resa in italiano?

Ho avuto la grande fortuna di incontrare un paio di grandi nomi, Harry Turtledove e Julian May, ma dopo aver tradotto le loro opere, non prima. Onestamente, non ho mai neanche pensato di rivolgermi all’autore per supporto nel tradurre un libro.

Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui vai più fiera di aver curato la traduzione?

Domanda non difficile, difficilissima. È come chiedere a una madre di scegliere fra i suoi figli. In blocco, direi tutti (o quasi) quelli usciti nella Fantacollana Nord, e di certo gli autori e i cicli che ho già menzionato.