"La musica è il miglior mezzo per sopportare il tempo". Lo scrisse il poeta britannico Wystan Hugh Auden, ne L'età dell'ansia, del 1948.

E lo è anche per sopportare una vita dentro la quale si è morti da tempo e si prova a sopravivvere con la regola della nessuna regola, per quanto riguarda la giovane detenuta assassina Jenny.

Ed è dolorosa sopportazione anche per l'anziana pianista Traude Krüger che ogni giorno si reca presso il carcere femminile di Lickau per insegnare a poche detenute.

Per dare sepoltura a un passato considerato scabroso e di emarginazione, a un amore tuttora vivo che è stato ostacolato dal destino e dal corso della Storia.

Una delle lezioni la porta a individuare bellezza musicale nel nero degli occhi di Jenny. La ragazza ha uno straordinario talento per il piano, ma la sua violenza originata da violenza e irrobustita e marchiata da un fato tragico, ha cancellato in lei ogni traccia di un dono rifiutato e che è stato origine della sua dannazione esistenziale.

Ama la musica, ma è la musica ad averla dilaniata. Le sue mani sono rovinate, inadatte a riprendere quelle note classiche che aveva scelto di lasciare contro il volere del padre. È imprigionata dentro un corpo androgino e sgraziato, costruito anno dopo anno per perdere ogni parvenza, ogni richiamo di identità. La normalità fa più male della violenza stessa, non permette di sopravvivere e ogni strada di ritorno è da smarrire.

"Perché vuole suonare il piano con queste mani?" (Traude Krüger)

"Non ne ho altre." (Jenny)

Ora Jenny sputa fuori dalle dita uno spartito d'odio verso l'umanità intera, in primis verso la sua stessa vita. Un abbandono e un distacco da se stessa racchiuso in note hip hop piombate giù con rabbia sui tasti del piano del carcere su cui non occorrono mani curate per esprimersi. Una cadenza ossessiva, via di fuga in cui incanalare la propria furiosa apatia e asocialità e mezzo per eludere ogni ripensamento di normalità soffocato in un'armonia furiosa che spacca e frantuma l'ordine stesso della musica, un tempo, la sua normalità nell'eccezionalità del suo talento.

Suona Musica negra, che Traude invece, detesta. Il non vivere dell'insegnante tedesca è confuso e nascosto dentro la musica classica, all'interno del suo rigore, la sua disciplina, da cui ella stessa proviene. Il dolore di una relazione non vissuta sta impressa nell'ordito di una tela di perbenismo che si è creata, nelle regole che prova a imporre agli altri per poter stare accanto alla sua maschera di sopravvivenza.

Due donne agli antipodi, diversità inconciliabili che non vogliono provare a incontrarsi, nemmeno unite dalla stessa musica, ma soltanto dall'armonia che sta nelle note che compongono una musica. Due donne che (non) si incontrano dopo l'ennesimo raptus violento di Jenny. La giovane assassina sa suonare, questo soltanto importa alla vecchia insegnante. La persona non le riguarda. L'obiettivo è solamente quello di farla partecipare a un concorso che potrebbe vincere. Non c'è altro, non ci deve essere altro. Nessuna delle due desidera e cerca affetto dall'altra. Si tratta di una collaborazione labile, rischiosa, di due perdenti incise da ferite che sanguinano ancora.

Il loro rapporto è rabbioso con le parole, conciliante attraverso le note, ma privo di qualsiasi empatia.

Insegnante e allieva. Didattica e rifiuto dell'altra, per entrambe. Ci può essere arte anche senza rispetto, basta che sia presente l'umiltà di apprendere.

" Prima regola: umiltà." (Traude Krüger)

"4 minuti" è un film interiore, dove il carcere è metafora di due corpi che schiavizzano e recludono due donne nel loro passato, nella loro volontà di annientarsi, nei sensi di colpa e nella inconscia quanto umana speranza di un riscatto pressochè irrealizzabile, dove la musica è unica possibilità per entrambe di ritornare a vivere. Anche per solo 4 minuti.