Cara Claudia, ben ritrovata su ThrillerMagazine, stavolta ospite della rubrica scaffalEbook!

Ciao Fabio. Ciao a tutti di Thrillermagazine. Posso dire che sono affezionata a Thrillermagazine? E’ sempre stato presente a ogni tappa del mio percorso di vita e scrittura. Un vero compagno di strada.

Stavolta parliamo di Hieronymus, pubblicato direttamente in ebook da Mezzotints. Un romanzo incentrato sulla vita del pittore Hieronymus Bosch...

Una vita immaginata. Non per pigrizia, ma perché ne ho già scritto, ti rimando al link diretto sul mio blog: http://kveldsalvatori.blogspot.it/2013/12/hieronymus-bosch.html

Perché Hieronymus Bosch? Hai amato la sua arte e quindi hai voluto scoprire (vivendolo con l’intensità propria della tua narrativa) oppure, viceversa, hai approfondito la sua pittura perchè lo hai scelto come interessante soggetto di un romanzo?

La risposta 1. Ho amato la sua arte dal primo momento che l’ho vista, anche se non saprei dire quando. Ci sono due dozzine circa di opere figurative che appaiono in tutti i testi divulgativi di storia dell’arte. È impossibile non incontrare Bosch, talmente fa parte del nostro patrimonio immaginario e culturale. L’ho visto sulle scatole dei cioccolatini. Come dire che si mangia… Dopo averne scritto, ho scoperto che è un artista di culto specialmente per gli scrittori di noir e thriller.

Come per tanti protagonisti, pur noti, della storia umana, anche per Bosch sono, più o meno, accertati solo alcuni aspetti della sua vita. Ciò (per fortuna; ) ), lascia spazio ai romanzieri di far rivivere le loro esistenze senza restare troppo invischiati nel collante della realtà. La domanda – ovvia e di rito, lo so, ma ci sta; ) – è a questo punto: quale è l’impronta personale che hai voluto dare alla figura e alla personalità di Bosch, e quanto in profondità ritieni di esserti addentrata in tale funzionale lettura?

Di Bosch non si sa nulla. Mi verrebbe da dire: per fortuna. Apparteneva a un’epoca in cui non c’era l’ego, ma soltanto la personalità artistica. Un artista doveva consegnarsi interamente dal suo lavoro, comunicare attraverso quello e farsene rappresentare. Di Bosch abbiamo soltanto i quadri. Ho inventato a partire dai quadri, con il mio solito metodo, facendo ricorso a elementi da narrativa pulp densi di messaggi che rimandano ai grandi problemi dell’avventura umana. Il risultato è un alternarsi di sceneggiatura da film/fumetto a momenti statici di riflessione e interpretazione della pittura. Statici come le tele, che però contengono del movimento… Spero di aver mantenuto equilibrio fra i vari tempi narrativi, fra le accelerazioni e le meditazioni. In Bosch vedo l’artista, quello che secondo me un artista è e deve essere. Sono soddisfatta del livello di intensità raggiunta nel rappresentare la mia visione dell’artista. Naturalmente è la mia visione, e può non essere condivisa.

La potente metafora del “carro di fieno”...

Il carro di fieno è un proverbio fiammingo. Come negare che il mondo sia un carro di fieno, e ciascuno ne arraffi più che può, nella quantità ma anche nella qualità? Il quadro di Bosch è romanzesco. Forse in bilico fra il poema epico e il romanzo moderno. Appartiene a quel genere di opere figurative che mi appaiono narrative. Per esempio La carriera del libertino di Hogarth (che contiene didascalie di commento in versi) o in epoca più recente Il fregio della vita di Munch. Amo quei quadri che potrebbero essere raccontati in tre volumi, e tutti i quadri di Bosch lo sono. Il carro di fieno rappresenta tutta la scala sociale e tutti i caratteri umani. È una storia con molte sottotrame. Su ogni personaggio (dagli accattoni che raccolgono solo poche pagliuzze all’Imperatore e al Papa ovviamente in cima al carro) si potrebbero scrivere pagine su pagine.

Di episodi forti, significativi, segnanti, nella formazione di Bosch nel tuo romanzo ce ne sono svariati. Soffermiamoci per esempio su quello che riguarda il Re delle Oche?

Proprio nel carro di fieno Bosch mette in scena l’omicidio, assassini e vittime. Ho fatto uso di un tipico espediente della fiction attuale: mettere il protagonista a diretto contatto con un’esperienza che poi dovrà distillare nella sua arte. Può essere un meccanismo un po’ grossolano. L’ho reso più raffinato con il passaggio successivo, quando lui tenta di comunicare e denunciare l’omicidio in un mondo sordo in cui si nega perfino che i fatti siano avvenuti. La conoscenza del male è soprattutto conoscenza dell’ipocrisia. È questo che dà la rabbia necessaria per gridare la verità sui quadri.

Mi sono messo svariati segnalibro, durante la lettura. Utilizziamo insieme alcuni per conoscere alcuni aspetti del romanzo. Al cap. 3, leggo: “Prima ancora di tutto c’è il colore.” Nella scena in questione, Bosch è un bambino di nemmeno un anno, sulle ginocchia del nonno, di cui ricorderà le mani, i colori che spalma, mesce e pennella. Un voce, e un’emozione, un sentimento, che fluisce sincero e indimenticabile.

Ne sono contenta. Ho regalato a Bosch un mio ricordo d’infanzia, probabilmente il primo: le mani di mio nonno. Non dipingeva, stava facendo un gioco con una cordicella. Ma l’emozione è la stessa.

Una frase presa dal cap. 14, parte prima: “(...), anche se ero appassionato dalla passione e ho cercato di convincermi del contrario.” Bosch, adoloscente, è profondamente attratto da una ragazza che più lontana da lui per carattare a stento può essere. Ma il suo è un passaggio tipico, soprattutto da parte di animi sensibili e votati all’arte. Innamorarsi più dell’innamoramento, piuttosto che della persona che parrebbe esserne oggetto, e invece è – al limite – solo catalizzatore...

Come dici, è una malattia infantile per cui si passa tutti. Mi sono chiesta se non sia un passaggio volontario, o semivolontario. Se non si voglia dare potere su di noi a qualcuno di estraneo proprio allo scopo di soffrire. Se non si desideri a un certo punto sperimentare quanto grande può essere l’indifferenza degli altri. Ho provato a sceneggiare una simile situazione, partendo dalla convinzione che l‘oggetto dell‘innamoramento è uno schermo su cui si proiettano sogni e desideri.

Altro spunto: “Gli esseri umani sono semplici, continua Goyart, credono che un quadro del colore della merda sia merda.”

Provo da sempre stupore e fascinazione (nel senso dell’orrore) per la tendenza umana a rifiutare, isolare, talvolta punire non chi fa il male, ma chi lo dice. Come mandare all’ergastolo il testimone e non l’assassino. Suppongo sia perché il testimone, più dell’assassino, proprio avendo ragione minaccia l’ordine sociale.

Cap. 10, seconda parte: “Peché amereste gli artisti? Sono noiosi, fanciulleschi, sempre pronti a vantarsi o a lagnarsi, e io non faccio eccezione. Perché amereste l’arte? Che cosa c’è di amabile nell’arte, a meno che uno non ami la propria maledizione?”

Qui ho sceneggiato problemi attuali che mi assillano. L’ego, in una sola parola. Mi rendo conto che le mie aspettative di ricevere attenzioni, perfino attaccamento, di attrarre perché scrivo, vengono sistematicamente disattese. Devo considerare la possibilità di poter essere noiosa. Perdonami la presunzione: a prescindere dai meriti artistici, se ne ho, mi proietto totalmente in Hieronymus e lo uso per cercare di spiegarmi a me stessa. Non parlo però di una maledizione trascendente, o innata nel temperamento artistico. Considero il maledettismo un fenomeno nato con l’avvento della borghesia al potere. Pensiamo a van Gogh, nato troppo tardi per lavorare in una corte, ma troppo presto per entrare nel mercato ed essere riempito di soldi. In tempi più antichi, mi pare, gli artisti erano più armoniosamente inseriti nella società. Ma all’epoca di Hieronymus il mondo stava diventando mercantile e lui lavorava per commercianti e notabili, oltre che per regnanti. Più avanti lui dice che non c’è niente di amabile nell’avere la pelle sempre sporca di colore, al punto che non è possibile lavarlo via. Il prestigio che si attribuisce all’artista è ancora esclusivamente a livello immaginario e in astratto. Nessuno conosce la quotidianità, la semplicità, la normalità dell’atto creativo: la pelle sporca di colore. Per i loro parenti, gli artisti sono degli sconosciuti. Se li riconoscono, li tacciano da infantili, vanitosi, egoisti e irresponsabili. È diventato un luogo comune che bisogna “sopportarli”.

Ad un certo punto, Bosch si riscopre (non senza sorpresa e amarezza) a dover affrontare una quasi lacerante dualità: il suo aspetto artistico, sensibile alla natura umana, portato all’indifferenza verso il potere e la ricchezza, e una dote altrettanto innata a far soldi, ad investirli in modo proficuo, e di conseguenza non sempre etico...

C’era un problema storico-biografico. Come ha potuto il discendente di modesti artigiani sposare la donna più ricca della città? Come avrebbe potuto dire tutto ciò che voleva nei quadri nell‘epoca del Malleus maleficarum, quando per molto meno si andava al rogo, se non fosse stato molto ricco? E quanto può essergli costato avere del genio eversivo e contemporaneamente essere un rappresentante fra i più rispettabili della società? La sua vita dev’essere stata un gioco di prestigio. C’è stato un altro pittore, Paul Gauguin, agente di borsa, molto abile con il denaro. Anche Hogarth era sposato con una donna molto ricca e ben inserita nell’ambiente di corte. Diamo troppo per scontato che la sensibilità artistica comporti quasi per obbligo una lirica inettitudine all‘economia. È una cosa che piace credere a chi non vuole pagare gli artisti… ma loro invece devono proteggersi e guadagnarsi da vivere.

Aleyd, la moglie amata da Bosch, è vittima di una pacata follia. Verso la fine del libro, tra momenti di pazzia e di lucidità, profetizza una sua visione del futuro, e tra le altre cose afferma: “Le donne saranno come me, libere dalle loro catene ma incapaci di vivere.”

È una correzione recente. Prima avevo scritto “le donne saranno tutte pazze, come me”. Ma non era molto comprensibile. Ho provato a immaginare Aleyd come una donna ricca e libera che si sceglie l’uomo (e la vita) che vuole. La sua follia non è proprio pacata. All’inizio è atroce, e comincia perché il mondo, nonostante il denaro e la posizione, le nega l’esistenza. Rifiuta di parlare con lei, le restituisce vuoto il suono delle sue parole. Volevo dire che non serve liberarsi dalle catene se poi si finisce per vagare nel nulla. Nell’ultimo ventennio ho potuto osservare la società italiana, e sono arrivata alla certezza che l’effettiva parità fra i sessi non si è mai realizzata. Tuttora non fa parte della nostra cultura e del nostro modo di sentire. Non è un’esperienza, un dato acquisito di partenza. E’ una velleità. Una tensione molto confusa. Si ha anche l’impressione che la gente sia tutta impazzita. L’emancipazione può aver creato delle donne realizzate, ma dov’è il mondo per loro? Moltissime sono parzialmente realizzate, o del tutto fallite con personalità borderline, incapaci sia di vivere come prima sia di inventare un altro modo di vivere, disperatamente attaccate a un filo di ragione.

Di spunti, ce ne sono veramente tanti. Ma lasciamo ai lettori la possibilità di scoprirli e interpretarli a modo loro. Ma ce n’è forse qualcuno che ti sta particolarmente a cuore sottolineare in questa intervista?

Molte cose di cui avrei parlato, le hai evidenziate tu. Ti ringrazio per la lettura attenta e appassionata. Ho messo in scena rapporti fra arte e potere, fra sesso e potere, fra immaginario e reale. Ma questo lo faccio sempre, in tutti i miei lavori.

Quando parlo di ebook nel catalogo di Mezzotints apro quasi sempre una domanda sull’aspetto grafico e sulle copertine, perché trovo che l’editore in questo casa lavori su questo aspetto riconoscendone il valore, laddove parte complementare del testo e non semplice involucro, anche in questo caso in un’ottica di efficacia in ebook, ma con approccio artistico. In questo caso, poi (stiamo narrando la vita di un pittore!), la cosa assume una rilevanza ancora maggiore...

Sì, mi piace molto la copertina di Ben Baldwin, con la figura centrale che rappresenta “il fratello del cigno” e un rimando alle creature zoomorfe di Bosch, e con richiami alla pittura preraffaelita…

In questa rubrica ci concentriamo sull’editoria digitale. Ma uno spazietto per chiederti qualche lume anche su “La spendente regina della notte”, il romanzo che hai pubblicato la scorsa estate in libraria per Mondadori (disponibile anche in e-book), possiamo concedercelo volentieri...; )

Guarda, dalla scorsa estate ci sono stati molti interventi critici su questo romanzo. Accurati, incisivi, intuitivi e molto attenti, di amici ma anche di persone che non conosco. Più che parlare ancora, preferirei cedere in questo caso la parola agli altri, se posso:

http://www.clubdante.net/cd/faces/includes/public_agora.xhtml?own=AUTHOR&item=688&currentLanguage=it

http://www.borderfiction.com/recensioni/461-la-spendente-regina-della-notte-claudia-salvatori

http://mondolettura.blogspot.it/2013/09/recensione-la-splendente-regina-della.html

Questa è, credo, la tua prima esperienza in “solamente” ebook, almeno per quanto riguarda un romanzo. Che approccio hai verso la pubblicazione direttamente ed esclusivamente in formato digitale?

Sperimentale, avventurosa… uno sguardo sul futuro. Ci auguriamo sempre del nuovo e del buono dalle rivoluzioni, se sono rivoluzioni. In ogni modo, non bisogna aver paura.

Siamo in chiusura d’intervista. Ti passo il testimone per un tuo ultimo commente sul tuo “Hieronymus” e per un saluto ai nostri lettori...

Sì, mando un caloroso saluto a tutta la “famiglia” di Thrillermagazine e approfitto del periodo per augurare ai vostri lettori un buon 2014!