Adesso sembra essere stato tutto facile. Il Professionista si è conquistato un pubblico solido ed entusiasta che, anche in un momento di crisi economica come questo, ha continuato a sostenerlo. Mi piace pensare che la dinamicità delle vicende e il prezzo contenuto della proposta abbiano contribuito. E poco importa che la collana sia pulp, alla fine pubblicare su Segretissimo era la mia aspirazione di ragazzino, di lettore e collezionista. Il fatto che Chance Renard si stia, innegabilmente, scavando una sua piccola nicchia tra gli eroi popolari italiani è per me il premio migliore.

Ma come è nata l’idea del personaggio? Quanto è cambiato rispetto a quella scintilla iniziale che, in realtà, venne generata molto prima che nel 1984 l’editor di Segretissimo mi chiedesse di creare un personaggio seriale in grado di accostarsi a SAS?

         

L’idea di base era corretta. Segretissimo è sempre stata una collana per eroi seriali, perché questa è la natura del pulp. Negli anni ha perso forse un po’ di smalto proprio perché si è voluto tentare strade diverse, magari anche con romanzi di valore ma fuori da quel meccanismo eroico-seriale di cui parlavamo in un articolo poco tempo fa.

A chi mi segue è già noto che l’intuizione di Gérard de Villiers nel 1965 di prendere alcuni tratti che avevano fatto la fortuna di 007, ma aggiungendovi del proprio, non mi era estranea. Perciò quando mi misi al lavoro ero ben consapevole dei “canoni” dell’eroe dello spionaggio avventuroso ma, soprattutto, intendevo aggiungerci qualcosa preso dalla mia esperienza, sia di vita che di lettore appassionato. Approdavo quindi alla lussureggiante isola del mio immaginario per attingere a frutti coltivati anche molti anni addietro e mescolarli in un “piatto unico” che, negli anni, avrebbe portato a uno sviluppo all’epoca impensato della serie.

Mi fu fatto un contratto per tre episodi e sarei stato felice di arrivare a cinque. Adesso, tra tutti i numeri pubblicati da Segretissimo, i fuori serie e i racconti, siamo quasi a cinquanta. C’era, evidentemente, nella premessa iniziale qualcosa, un progetto che magari allora non era ancora ben definito nella mia mente, che mi avrebbe concesso poi di espandere la saga in ogni direzione. Fondamentalmente al principio di tutto c’era un grandissimo amore per la narrativa avventurosa. Un amore che nasceva in età giovanile, per Salgari prima di tutto, per il western, per tante suggestioni attinte nei romanzi, al cinema e nei fumetti.

           

Se analizziamo le tematiche, ancor prima che il personaggio, del Professionista emergono alcuni tratti fondamentali.

Prima di tutto l’Oriente, le arti marziali, l’esotismo in genere come componente essenziale della “mitologia” del personaggio. Quello sfondo che il lettore ha sempre presente anche se la singola storia si svolge a Gangland o in Europa. Qualcosa, un richiamo, un’atmosfera che rimanda a Salgari ma anche a Bernard Prince, a Bruce Lee, all’epopea dei samurai c’è sempre, come sotteso. A questo, ovviamente, si agganciano le caratteristiche dell’eroe della spy story avventurosa. L’agente speciale, in questo caso free-lance perché il Prof doveva essere libero di giocare su più tavoli. Era poi passato il periodo della Guerra fredda e uno schieramento troppo “politico” del protagonista, non solo non mi andava concettualmente, ma mi pareva anche superato dai tempi.

L’agente capace di cavarsela in ogni occasione, sciupafemmine, tiratore, picchiatore ma anche bon vivant, sfrontato era d’obbligo. In questo senso Chance era più vicino a James Bond o forse a Sam Durell che a Malko Linge, insomma quando c’era da sparare era sempre in prima linea. Anche perché i modelli di partenza Sandokan, Bruce Lee, e molti eroi del West (tra i quali citerei Blueberry più di Tex) erano fondamentalmente uomini d’azione. Da quelle letture giovanili veniva poi la passione per l’Asia, le arti marziali, i viaggi e la fotografia che era un po’ il mio modo di disegnare ma anche un utile strumento per trovare dei set sempre nuovi, per guardare le ambientazioni ancor prima di descriverle e trasmettere così l’impressione di un ambiente al lettore.

Fondamentali in questo senso sono state le “avventure reali” non tanto pericolose quanto varie, vissute anche lì con l’animo del narratore che forse distorce, ingrandisce e rende più affascinanti cose che magari ad altri sfuggono. C’era, a quel punto un tassello nuovo da inserire, qualcosa che fosse mio.

       

Fu intorno al 1980 che feci alcuni viaggi in Corsica e rimasi fortemente colpito dall’ambiente, dalle storie dei banditi. Già frequentavo Parigi seguendo da una parte un percorso personale legato alla Savate, agli sport da combattimento e un altro più “fantastico” che affondava nel ricchissimo territorio dei film noir, nei romanzi di Auguste Le Breton, di Sanantonio di Josè Giovanni e in tutti i film che ritraevano quel mondo. In Francia vado da quasi trent’anni con regolarità, quindi ho assorbito moltissimo della sua cultura popolare che non è, come invece spesso si equivoca, quella dei film di Romher, considerata noiosa, d’essay, dalla maggior parte del pubblico italiano.

In Francia ho scoperto con anni di anticipo il cinema di Hong Kong, il poliziesco duro. È ovviamente le Brigate del Tigre, Arsenio Lupin e quel genere di suggestioni che, in seguito, entreranno a far parte dell’universo del Professionista. Al momento però, al di là di qualche influenza derivata direttamente dalla cultura del noir criminale, non avevo coscienza.

Poi mi capitò di leggere alcuni libri sulla mafia corsa e mi venne l’idea che quel sostrato di cultura criminale poteva costituire un altro tassello della mitologia del Professionista. Alla fine il concetto era semplice. In testa avevo certamente Il Padrino per cui la “sicilianità” di Puzo non potevo usarla anche se l’idea di questa società criminale arcaica con le sue regole mi sembrava interessante. Volendo poi dare un sapore di internazionalità alla serie che più che italiana all’epoca aveva una sua caratteristica europea, la mafia corsa era perfetta.

C’era un aggancio con l’unione Corsa di Fleming, con il Milieu di Melville e quindi poi i romanzi di Heffernann (che oltre al Clan dei corsi sono anche Corsican Honor e Act of Contrition che ha a che fare con i sindacati portuali) qui arrivava poi un altro mito classico dell’avventura. La Legione Straniera, rifugio per uomini braccati costretti a imprese coraggiose loro malgrado.

Lo Sconosciuto dell’indimenticato Magnus, forse l’unico vero eroe della spy-story in senso moderno del fumetto italiano
Lo Sconosciuto dell’indimenticato Magnus, forse l’unico vero eroe della spy-story in senso moderno del fumetto italiano
La legione aveva i suoi principali punti di addestramento in Corsica a Bonifacio, a Bastia, sul Monte Cinto. Andava formandosi una base per creare un passato al personaggio. Base solidissima e che mi consentiva un aggancio con un’altra grande scoperta fantastica di quegli anni: lo Sconosciuto di Magnus. Unknow fu una scoperta dei primi anni ’80. Avevo seguito Magnus sin dal decennio precedente, con Kriminal, Satanik e il gruppo TNT. Di certo il tratto del maestro aveva contribuito a creare nel mio immaginario dei riferimenti che si mescolavano con moltissime altre suggestioni. Trovare quei sei volumetti originali in un’offerta alla Borsa del Fumetto fu una folgorazione. Magnus era un po’ assente dalle mie letture da quando aveva lasciato Alan Ford, sapevo che si stava dedicando all’erotico, avevo letto la prima tranche dei Briganti ma... mi mancavano le sue storie contemporanee. Con Unknow fu subito empatia.

Un ex Legionario, non più giovane, disilluso, un eroe che le prendeva, ma le ridava anche. E, naturalmente il sesso, le scenografie curate al dettaglio e quel mix di esotismo e di italianità. Sì, credo che fu proprio il doppio episodio di Largo delle Tre Api che mi fece comprendere che avrei potuto scrivere spy story anche con ambientazione italiana senza perdere la grinta di quelle avventure internazionali che tanto mi piacevano. Una intuizione che già avevo avuto leggendo Al servizio di chi mi vuole di Scerbanenco con Ulisse Ursini che, soprattutto nella prima parte del romanzo, avrebbe messo un’impronta indelebile nella formazione del carattere del mio personaggio.

Questo, per dirla tutta si stava già formando da tempo e con spunti differenti. Ricordo i fumetti di William Vance Bruno Brazil con quel disegno spigoloso ma il ritmo cinematografico. Commando Caimano, Lo squalo che morì due volte... sono piccoli tasselli ma, come dicevo, Chance Renard nasce da moltissime ispirazioni coltivate per anni.

Già vi ho parlato della serie che scrivevo da adolescente a mano e a macchina di cui alla fine ho pubblicato solo con le edizioni Garden il primo episodio La tigre nel mirino. Protagonista un cinese agente del servizio segreto inglese a Hong Kong, Fang Sing Ling che poi era il nome di Wang Yu in Il drago di Hong Kong un film marziale e spionistico visto alla metà degli anni ’70. Naturalmente il mio eroe era un mix tra Bruce Lee e James Bond. Scrissi almeno una ventina di episodi che furono un’ottima scuola per ciò che creai in seguito. Al personaggio rimasi molto affezionato tanto da inserirlo poi nella saga di Chance come comprimario di “peso” da Morire a Kowloon in avanti.

         

Ma altri romanzi, altre suggestioni premevano, come scopriremo nelle prossime puntate.