Vyšehrad, Praga.

La luce livida dell’alba inondò le vie nebbiose di Praga rendendola inquietante e spettrale. Attraverso le persiane scrostate dalle lunghe intemperie invernali, una foschia densa e nauseabonda sembrava voler penetrare fino ad invadere l’intero edificio.

Il Dottore si era rintanato sotto falso nome in una bettola da quattro soldi in Vratislavova. Era una struttura fatiscente che sembrava uscita da un incubo post-sovietico. I mobili di quaranta anni facevano a pugni con gli stucchi barocchi improvvisati in anni più recenti e la polvere ammassata negli angoli non aiutava certo l’estetica del posto. Nell’ascensore c’erano ragni grandi quanto un palmo e l’idromassaggio non funzionava presumibilmente da anni, ma in compenso con un euro al giorno il gestore offriva film a luci rosse talmente scarsi da diventare ridicoli. Sullo schermo, a volume moderato, una bionda con un bel viso e il fisico di un cavallo da tiro gemeva presa da dietro da un energumeno neandertaliano. Il Dottore controllò il pugnale fissato all’interno della manica, poi mise in tasca due caricatori e nella fondina la Beretta.

Registrato con documenti falsi spagnoli, Doc lasciò andare in loop il filmato e uscì dalla stanza lasciando il cartello “Non disturbare” appeso alla maniglia.

Il corridoio era libero, nessuno in vista. Scese a piedi dal secondo piano. Il portiere non aveva ancora avuto il cambio e dormiva riverso su una poltrona sfondata nella reception. Il Dottore sfilò in silenzio verso l’ingresso, il rumore dei passi coperto dallo sbuffare rauco del portiere, accompagnò il portone e uscì silenziosamente dalla stamberga. In strada venne accolto da un muro lattiginoso che rendeva i contorni indefiniti. Non c’era anima viva in circolazione: Praga doveva ancora risvegliarsi dai propri incubi notturni.

Il Dottore attraversò velocemente a testa bassa e si diresse verso una scalinata che conduceva ad un sentiero fra gli alberi. In pochi minuti raggiunse la Rotonda di San Martino, un piccolo edificio romanico reso sinistro dall’atmosfera lugubre di quel mattino.

Girò intorno alla struttura fermandosi dalla parte opposta rispetto alla strada, controllò che non arrivasse nessuno e poi infilò una mano nell’erba alta in un punto preciso. Tastò il terreno, poi le dita incontrarono una maniglia di acciaio gelido e umido. Tirò con forza con entrambe le mani scoprendo una botola, poi un rumore di passi proveniente dalla macchia di alberi lo indusse a fermarsi. Sollevò di scatto la testa e il tempo accelerò di colpo: un primo proiettile fischiò a pochi centimetri dall’orecchio destro, poi un secondo altrettanto impreciso scheggiò un angolo della botola. Il Dottore si lasciò cadere di sotto senza pensarci. Atterrò in modo scomposto picchiando una spalla e piegando male una caviglia, poi subito si inoltrò lungo un condotto immerso nel buio. Imprecò a denti stretti mentre si allontanava più velocemente possibile: a sparare era stata Natasha, il suo contatto nella polizia.

Non provò nemmeno a fare ipotesi sui motivi e le conseguenze di quella situazione: nel suo ambiente arrivava spesso il momento in cui qualcuno offriva di più cambiando improvvisamente le carte in tavola. Zoppicando percorse per svariati metri il corridoio fino a raggiungere una porta in acciaio spessa un palmo. La superò chiudendosela alle spalle e ponendo una barriera fra sé e i passi di Natasha che risuonavano nell’ombra. Cercando di ignorare il dolore, il Dottore accelerò l’andatura. Si trattava di un vecchio rifugio risalente all’occupazione nazista che il Servizio aveva rimesso in funzione nel più totale riserbo. D’altra parte non era stato difficile: chi se ne ricordava era morto o scomparso. In quel momento c’era almeno una persona che ne sapeva troppo e oltretutto gli stava sparando addosso, rendendo quel rifugio per nulla sicuro nonostante il buio e le porte spesse un palmo. Il dolore sembrò sparire quasi del tutto e il Dottore accelerò il passo fino a superare il secondo varco. Attento a produrre meno rumore possibile, richiuse il battente e si fermò. Appoggiato al muro freddo e umido considerò che aveva una manciata di secondi per reagire.