Non hanno neanche il tempo di fare conoscenza, i nuovi investigatori del commissariato di Pizzofalcone. Mandati a sostituire altri poliziotti colpevoli di un grave reato, devono subito affrontare un delicato caso di omicidio nell'alta società. Le indagini vengono affidate all'uomo di punta della squadra, l'ispettore Giuseppe Lojacono, siciliano con un passato chiacchierato ma reduce dal successo nella caccia a un misterioso assassino, il Coccodrillo, che per giorni ha precipitato Napoli nel terrore. E mentre Lojacono, assistito dal bizzarro agente scelto Aragona, si sposta tra gli appartamenti sul lungomare e i circoli nautici della città, squassata da una burrasca fuori stagione, i suoi colleghi Romano e Di Nardo cercano di scoprire come mai una giovane, bellissima ragazza non esca mai di casa, e il vecchio Pisanelli insegue la propria ossessione per una serie di suicidi sospetti. Forse, questa sarà una voce fuori dal coro, ma "I bastardi di Pizzofalcone", ultima fatica di Maurizio De Giovanni, resta un libro incompiuto. Si ha l'impressione, fin da subito, che l'autore cerchi qualcosa di diverso, un quid che non appartiene alla sua consueta scrittura. Probabilmente per un senso di consapevolezza, questo nuovo aspetto resta in fase embrionale, nascosto spesso in corsivi in bella mostra o in situazioni intimiste che paiono inserite a forza, in un processo forma mentis che rimanda a "La lettera rubata" di Poe. È comunque un ostentare sterile, in cui non basta dare una nuova espressione a parole che si conoscono e che si sanno usare, per ottenere un differente coinvolgimento emozionale. Avventurarsi nello sconosciuto fa sì che De Giovanni si limiti a sistemare lungo il percorso del romanzo semplici tessere sparse di questo "stil novo", lasciandole prede e bottino di analisi interiori ed esperimenti subliminali che stonano in un contesto "poliziottesco" costruito su lunghi interrogatori e situazioni che traggono vigore da una staticità di fondo caratteristica dei celeberrimi polar francesi. La storia de "I bastardi di Pizzofalcone" non è originale, con un commissariato che strizza l'occhio ai maledetti e corrotti distretti di polizia americani in cui vengono confinati uomini di legge scomodi (vedi ad esempio, Bronx 41º distretto di polizia) ma scorre via senza intoppi, soprattutto nelle parti in cui è evidente l'abilità dell'autore nel destreggiarsi su sentieri che conosce e batte da tempo. I personaggi all'interno del plot narrativo sono quello che ci si aspetta. Stereotipati in un contesto di scena che richiede convenzioni da canovaccio di genere, partendo dai protagonisti fino ad arrivare ai ruoli di contorno che marcano il confine oltre il quale non è saggio spingersi. Questa "prevedibilità coreografica" e una inaspettata quanto azzardata intenzione di varcare quei confini, contribuiscono così a rendere ancor più avulse dalla trama le "parti emotive nuove", dentro le quali si intravede una storia che non appartiene alla cronologia delle azioni, ma che suscita la convinzione di essere stata strappata da una dimensione diversa per tentare di possederla e addomesticarla a una scrittura che ci si aspetta dall'autore e che ne ha promosso i fasti che sono noti. È proprio in questa palese e aliena, -nel senso etimologico del termine-, differenza che tutto quanto il castello, da mura sufficientemente solide, cambia in un castello di carte in cui nemmeno le maschere e le vesti più indossate riescono a impedirne un inesorabile deterioramento mano a mano che la storia avanza. La scrittura è certamente anche sperimentazione, la stessa creatività non ha confini delimitati, ma è altrettanto vero che è sempre rischioso e in percentuale, controproducente, catturare altrove chiavi che non si conoscono e che non si addicono ad aprire serrature stilistiche ed emotive che non appartengono. Alterarsi non porta a migliorarsi, ma a perdere autorità e governo su uno scacchiere che ci è abituale, finendo col lasciare solamente tracce di sè e disperdendo tutto il resto dentro i dedali di una chimera inarrivabile.