Everybody was Kung Fu fighting cantava Carl Douglas moltissimi anni fa. Erano gli anni ’70 e, per noi che eravamo ragazzi a quei tempi, l’Oriente, la sua tradizione marziale e i suoi eroi, arrivavano come un’esotica novità, una ventata d’aria fresca nel panorama delle nostre fantasie coltivate su modelli a stelle e strisce.

Non un mondo totalmente alieno e sconosciuto, però. Echeggiava dei ricordi di avventure salgariane, delle gesta cinematografiche dei vari agenti speciali conoscitori del “colpo segreto” e di storie a fumetti pubblicate sugli albi speciali del Corrierino. L’Asia (che era molto diversa nell’immaginario da quella che i telegiornali ci mostravano con le foto del conflitto vietnamita) possedeva una magia ammaliatrice unica. Un reame fantastico che piombò tutto in una volta su di noi imponendosi con l’adrenalinica energia del cinema di Hong Kong, ma non solo.

          

Erano gli anni in cui era diffusissima tra i ragazzi la pratica del Judo ma si cominciava a parlare seriamente anche di Karate. Discipline giapponesi, è vero, ma che, nel nostro immaginario, formavano un tutto unico con i film di Kung Fu, con i fumetti di Shang-chi, persino con le più esaltanti sequenze d’azione dello sceneggiato Sandokan nel quale maestri nipponici trapiantati in Italia si fingevano tigrotti malesi e i “ninja” di lord Brooke affrontavano spadaccine thai in un mélange curioso ma irripetibile.

Ricordo che la mania del Kung Fu divenne in breve un fenomeno di costume. Una nota marca di jeans prometteva pantaloni antistrappo con la foto di uno spettacolare calcio volante che rimandava all’iconografia classica del cinema marziale. In metropolitana, su un quotidiano letto da un passante, furoreggiava un’inchiesta che berciava contro l’influsso negativo delle arti marziali sui giovani. L’articolo titolava: «Il Karate uccide, il sesso no», alludendo chiaramente ai film a luci rosse che arrivavano - temutissimi dai benpensanti - proprio allora nei cinema italiani. Povera gioventù in balia di mode e tentazioni...

Ma intanto le palestre (quelle nei sottoscala con istruttori a volte improvvisati) si riempivano. Tutti volevano imparare la “lotta orientale”. Le camere dei ragazzi erano tappezzate di poster di Bruce Lee, magari ignorando che, nel ’73, il Piccolo Drago era già morto e si era scatenata la caccia al suo erede negli studios cinematografici di Taiwan. Presto i cinema sarebbero stati inondati da una marea di imitazioni interpretate dai vari sosia di Bruce (Bruce Le, Ho Chun Tao, Tan Tao Liang e Bruce Leung che poi diventavano i vari Bruce Li e Bruce Lai... poco importava che spesso fossero brutti film, coreografati male...) creando una confusione incredibile e l’impressione che si trattasse di una produzione spazzatura. L’entusiasmo comunque era alle stelle. Tempi che è difficile non ricordare, per me almeno, con nostalgia.

Anche se le informazioni arrivavano confuse, mescolate e non sempre precise, si apriva per il nostro immaginario una nuova frontiera. Il cinema era un’apripista ma c’era molto di più. Si praticava con passione, si confrontavano scuole e maestri. Presto arrivammo a capire che la tradizione millenaria che ci veniva spacciata nei dojo giapponesi aveva solo cento anni e che le arti marziali, forse proprio grazie a Bruce, erano in via di rinnovamento.

        

Timidamente si cominciava a parlare di Full Contact, di combattimento reale. E lì nascevano le polemiche tra quelli che, conquistata la loro cintura nera, volevano mantenere un privilegio e chi, come me, era convinto che si è guerrieri o non lo si è. Nello spirito come nel corpo. Bruce aveva ragione. La cintura serve per tener su i pantaloni e l’arte marziale è una cosa viva, reale, in continuo rinnovamento. Magari non era esattamente quella che vedevamo al cinema. Senza i necessari strumenti di analisi noi ragazzi non sapevamo che il Kung Fu dei film era molto diverso dalla realtà, che gli attori avevano alle spalle, nella stragrande maggioranza dei casi, solo corsi accelerati e che i “prodigiosi” salti eseguiti sullo schermo erano frutto di trampolini e cavi. Non importava, quello era il magnifico mondo del Kung Fu.

Ci sarebbe stato tempo in seguito per distinguere tra Wuxiapian cavallereschi e Gongfupian a mani nude, per capire che il cinema marziale nasceva con l’industria dello spettacolo a Shanghai e che, dai prototipi mandarini, i cantonesi avevano sviluppato prima una mitologia medioevale che esaltava figure di femmine guerriere e in seguito avevano elaborato leggende più moderne come quella del maestro Wong Fei Hung, in chiave più violenta e maschile.

All’epoca nomi come King Hu e Chang Che erano del tutto sconosciuti. Delle differenze, delle influenze che avevano ispirato il loro cinema non sapevamo nulla. Avremmo avuto tempo in seguito per conoscere i nomi dei grandi registi, degli acrobati dell’Opera Cinese, dei maestri d’arme che furono la spina dorsale di quella produzione. Bastava, per esaltare la fantasia, anche un attore modesto come Jimmy Wang Yu che affrontava con un braccio solo una schiera di bizzarri e poco realistici avversari. Con una mano ti rompo, con due piedi ti spezzo... eh sì, quelli erano i titoli che imponeva la distribuzione italiana e, curiosamente, funzionavano, alimentando i sogni e l’entusiasmo.

          

Il fenomeno cinematografico dei film di Kung Fu durò poco ma riversò nelle sale una quantità incredibile di titoli. Mal doppiati, tagliati, spesso spacciati per film di Bruce Lee anche quando erano storie di spadaccini in costume, a volte tecnicamente debolissimi. Però con i flani colorati, le frasi ad effetto, generarono un’onda straordinariamente lunga tra gli appassionati. Molti erano praticanti e molti no.

Fiorivano giornaletti e riviste. Ricordo con piacere Samurai e Banzai (per la quale ho scritto per anni). Quest’ultima era dedicata alle nuove tendenze, al cinema. Esordì con un articolo chiaramente finto in cui si sbandierava: «Bruce Lee è vivo e sta in una comune della Cina Popolare». Seguivano fotomontaggi di contadini cinesi con il viso del Piccolo Drago. Nello stesso numero un mio amico fotografò due poppute ma tecnicamente inadeguate aspiranti modelle che si affrontavano a seno nudo ma con tutte le protezioni del Full Contact, ovviamente caschetto compreso... era un’epoca così...

Nella nostra fantasia aveva attecchito una passione che si protrasse per anni, anche quando dai cinema i film di “lotta orientale” scomparvero del tutto. In quei decenni la situazione marziale italiana si sviluppò in maniera esponenziale. Scuole e discipline di ogni tipo, federazioni, campionati, maestri improvvisati e autentici talenti. Ci fu persino chi spacciò un arzillo vecchietto fino ad allora relegato in una palestrina come supremo maestro della tradizione Shaolin, trasformando una sotto-scuola con abili ritocchi effettuati da autentici atleti del Karate. Di tutto e di più.

Il cinema fu un po’ dimenticato; catalogato, alla fine, come un fenomeno fracassone di un altro decennio. Invece in Oriente quel genere di action continuava a evolversi a produrre, a cercare disperatamente di occupare degli spazi internazionali. In America la Cannon propose i ninja e, per un po’, fu un profluvio di acrobati mascherati. Poi vennero altre produzioni che, sfruttando la popolarità del Full Contact crearono nuovi miti. Chuck Norris, Seagal, Van Damme. Dapprima timidamente poi con sempre maggior vigore cavalcarono le produzioni di serie B riempiendo le nostre TV di film che hanno formato il gusto di una generazione successiva alla mia, quella degli anni ’80, cresciuta con il mito degli eroi alla Schwarzy e Stallone.

Era un cinema diverso, a tratti più curato (le coreografie erano quasi sempre di maestri coreani e giapponesi di Los Angeles: Eric Lee, James Lee, Jeff Imada, davvero abilissimi), a volte più sciatti (nelle sceneggiature). Di certo i film americani mi parevano più lenti, più da “exploitation”, soprattutto nelle trame che erano solo pretesti per risse e tornei. Invece, recuperando lentamente la tradizione di Hong Kong si capiva che dietro tutta la produzione Shaw Brothers e Golden Harvest c’è un’industria del cinema “vera”. Magari aveva una diversa sintassi cinematografica, modi espressivi curiosamente antitetici ai nostri, ma tentava di essere cinema a tutto tondo e non solo “azione scacciapensieri”.

            

John Woo
John Woo
Per me almeno la vera riscoperta del cinema marziale è avvenuta all’inizio degli anni ’90 con l’arrivo dei film di John Woo, di Tsui Hark, di Ringo Lam e Kirk Wong. Il cinema noir di Hong Kong apriva le sue porte. Arrivava in Occidente rinnovato nelle tematiche e nei mezzi. Non solo arti marziali, anzi. Le scene di combattimento richiedevano quasi sempre qualche esperto ma la vecchia formula delle “scuole rivali” era superata. La commedia (come nei film di Jackie Chan) o il gunplay (come in quelli di Woo ma anche di moltissimi altri registi) ci mostravano un cinema adulto, favoloso. Una Hollywood senza freni, dove l’importante erano i sentimenti, la passione di cui non ci si vergognava. Erano gli anni della revanche di Ching Siu Tung, di Sammo Hung, di Yuen Woo Ping e di Lau Kar Leung...

Quanti ne ho visti di quei film... e quali nuove possibilità mi si affacciavano alla mente. Commistione tra i generi, acrobazie, romanticismo, femmes fatales. Da lì - personalmente ma credo che fu così un po’ per tutti - cominciò una vera rivoluzione dell’azione. Andavo a cercare cassette - e poi DVD - in Oriente, nelle comunità asiatiche di Londra e di Parigi. Erano ancora lontani gli anni in cui la Celestial comprò il catalogo delle pellicole della Shaw che stavano lì ad ammuffire e ripropose rimasterizzate tutte le pellicole classiche permettendo uno studio serio del cinema orientale marziale e non, sin dalle origini. È stata sicuramente una delle grandi esperienze creative della mia vita.

Già predisposto verso l’Oriente, le sue tradizioni e quel mondo, ampliai il mio immaginario a dismisura, facendo mio quello che vedevo. Un po’ come avevano fatto i registi di Hong Kong che avevano pescato in ogni dove (molto in Italia) per riciclare tutto in salsa soja. Sotto questo profilo mi sento molto vicino a certe idee di Tarantino che poi sono molto simili a quelle di Tsui Hark... il cinema popolare, le leggende, gli eroi e le gesta... tutto ribolliva in un unico calderone cui attingere per preparare piatti nuovi e prelibati. Non sorprenda questo parallelo con la cucina. Se qualcuno ricorda un bel film di Stephen Chow (The God of Cookery) sa quanto siano legate la lotta, la cucina e, sì, anche la comicità in questo immaginario che le rigide definizioni e le etichette dell’industria occidentale non riusciranno mai a comprendere.

            

Come ho più volte raccontato riscoprii il cinema di Hong Kong nel ’92 a Parigi visionando una cassetta (in Secam per cui si vedeva in bianco e nero sui nostri televisori) di Hard Boiled dopo che da un paio d’anni leggevo recensioni entusiaste sul cinema di John Woo. Per me fu una folgorazione. Al posto del Kung Fu usavano pistole e mitra ma l’emozione era la stessa con in più tante cose che adoravo, dal cinema noir di Melville, a certe soluzioni “leoniane”.

Quella di Hong Kong era la cinematografia che avevo sempre sognato, senza freni e pastoie. Appassionante, adrenalinica, popolata di talenti. E le riprese, i mezzi tecnici mi sembravano incredibilmente superiori ai vecchi film di Kung Fu di quando ero ragazzino. Per la verità, rivedendo in seguito i classici devo convenire che anche quelli erano ben fatti. Purtroppo il materiale all’epoca disponibile in Italia riduceva tutto al “quadrotto”, tagliava pezzi interi di sceneggiatura, insomma mortificava un cinema che invece era vividissimo e spettacolare.

Stefano Di Marino
Stefano Di Marino
Io, da quel mondo, non mi ero mai staccato. Praticante mediocre (ma tecnico) negli anni avevo vissuto le pagine forse non esaltanti della politica sportiva, gli stage all’estero. Quel mondo lo conoscevo bene, lo avevo approfondito. Sapevo che oltre “l’urlo che uccide” c’era ben altro. Una cultura che si diversificava a seconda dei paesi e delle società in cui si era sviluppata. Per me divenne una mania, una fonte di ispirazione che cambiò il mio modo di scrivere, di immaginare. Partii alla ricerca di tutto quello che trovavo sul mercato, dalle riviste, ai libri, ai film. La prima edizione di Dragons Forever nacque così, con moltissima documentazione e, in realtà, pochi film visti rispetto al patrimonio favoloso che Hong Kong custodiva.

Pensate che nel 1995 andai a HK per documentarmi meglio e negli studi della Golden Harvest mi risposero che non avevano un archivio ordinato delle pellicole. C’erano dei collezionisti ma, ancora per un decennio, quel materiale non sarebbe stato disponibile. E HK era il terzo paese produttore di film al mondo dopo gli USA e l’India... ma, spinto dalla passione, scrivevo, leggevo, cercavo di ricostruire i brandelli mancanti attingendo dove meglio potevo. La “yellow fever” era altissima.

C’è stato un periodo in cui vedevo una tale quantità di action movies orientali che quelli americani mi parevano lenti, noiosi. Ora so che non si può fare di tutta l’erba un fascio e che in tutto quel materiale reperito c’era del buono, dell’ottimo ma anche del pessimo. Soprattutto ho imparato a capire che, dopo il ’99, purtroppo, la cinematografia di Hong Kong ha recuperato la sua tradizione ma si è trasformata, ha cominciato a nutrire ambizioni artistiche. Complici gli americani che hanno importato i grossi nomi solo per rigettarli in pasto agli squali quando hanno capito che non potevano piegarli alle loro regole produttive, la vena si è inaridita. Non è morta, per carità, ma è cambiata. Ha tracciato connessioni con la madrepatria che certamente ha portato a produzioni veramente ad alto budget che hanno trasformato il Wuxiapian in qualcos’altro, un filone cavalleresco che da una parte ha sfruttato al massimo la favola, il trucco visionario e dall’altro ha ripercorso la storia in modo più realistico e autoriale.

Il rilancio del cinema cavalleresco in Occidente segue il successo di critica e di pubblico di La Tigre e Dragone che poi è davvero un bel film e ad Ang Lee va riconosciuto di aver re-interpretato una tradizione considerata dalla critica occidentale solo popolare. Ma non ha inventato nulla. Né lui né Zhang Yimou che si è rituffato con Hero e La foresta dei pugnali volanti nel Wuxiapian come se non fosse mai esistito. Qualcuno dovrebbe ricordargli che lui stesso e Gong Li furono protagonisti di un piccolo ma fondamentale film di Ching Siu Tung, Terracotta Warrior... molti anni prima.

             

Sonny Chiba
Sonny Chiba
I film di Kung Fu non sono morti realmente come non è morto il noir honkonghese, ma di certo hanno cambiato pelle. Un po’ a causa dell’esasperato impiego dell’elettronica, un po’ per l’influenza dei videogiochi un po’ perché, come tutti i filoni, una volta raschiato per bene il fondo del barile qualcosa va cambiato e il mutamento non sempre soddisfa. Sono però riemerse altre cinematografie come quella giapponese, che negli anni ’70 era marzialmente florida poi ha abbandonato il filone per riscoprire solo recentemente i classici chanbara (13 assassini per dirne uno) o le rivisitazioni fumettistiche derivate dai manga.

I film di Sonny Chiba del ciclo Streetfighter oggi sono ancora divertenti, ma la vena attuale in Giappone impone studentesse dal calcio proibito e lo sguardo ambiguo (da Yoyo Girl Cop a Karate Girl), adolescenti iperviolenti (il ciclo di The Crows di Miike) e rivisitazioni del Giappone feudale in chiave surrealistica (come Azumi ispirato all’omonimo manga). Persino i manga marziali mescolati all’horror hanno ispirato film europei come Blood di Nahon con Yasuaki Kurata ma coreografato da Corey Yuen che è cinesissimo.

Poi sono arrivati i coreani, con la loro visione del noir e del cinema marziale che gloriosamente comincia con Musa-the warrior rimasto ignobilmente inedito in Italia ma reperibile sul mercato francese (La princesse du Desert), una nuova visione del film in costume che si allontana sempre più dal fantastico e approda alla storia. Un esempio nelle grandi produzioni cinesi che culminerà con Red Cliffs. La battaglia dei Tre Regni di Woo ma avrà innumerevoli epigoni in tutta l’Asia, trai quali ricordo con piacere i thailandesi Bang rajan e i Pirati di Langasuka.

Proprio la Thailandia si impone negli ultimi anni da una parte con una serie di pellicole storiche, sontuose che non sono proprio esattamente marziali ma sfiorano l’argomento. Dall’altro con la riscoperta di un cinema d’azione senza controfigure, adrenalinico, povero di mezzi ma esaltante per il pubblico. La rivoluzione thailandese ha portato sui nostri schermi una new wave di atleti eccezionalmente dotati senza bisogno dei “cavi”. Tony Jaa e JeeJah Yanin, solo per fare due nomi. E che dire dell’Indonesia che dopo Merantau ti spara lì The Raid che, complice una trama semplicissima e un nucleo di interpreti dall’abilità straordinaria, diventa il film guida per l’action degli anni Duemila?

            

Arriva adesso sullo schermo L’uomo con i pugni di ferro, diretto dal rapper RZA da sempre fanatico cultore dell’immaginario marziale (il Wutang Clan, il suo gruppo, si ispira a un luogo mitico di istruzione marziale cinese) e prodotto da Tarantino e Roth. Un film nelle intenzioni complesso, ricchissimo di riferimenti al cinema del Kung Fu tra gli anni ’60 e gli anni ’80, forse non comprensibilissimo per il pubblico più giovane che almeno la parte dei film realizzati dopo la morte di Bruce non li ha visti in Occidente.

Tagliato con l’accetta dalla distribuzione e privato di particolari che invece sarebbero stati preziosi al fine della totale comprensione dell’opera, L’uomo con i pugni di ferro è un atto d’amore per quel cinema lì, che oggi non si fa più neanche in Asia. Però che bello, che sontuosità nelle scenografie, nei costumi. Cade un po’ proprio nell’azione che è marcatamente fatta con i cavi e lascia poco spazio anche a chi, come Cung Le, saprebbe dare spettacolo con il corpo. Ma quando Rick Yune affronta Byron Mann nel labirinto di specchi come faceva Bruce in I tre dell’Operazione Drago con Shih Kiehn... scatta la standing ovation. Dopotutto è un film fatto per chi soffre di nostalgia.

E il viaggio attraverso leggende e tradizioni continua, si autoalimenta con sempre nuovi personaggi, storie, seduzioni. Sfaccettatissimo, il cinema orientale mi dà l’impressione (che forse è sbagliata ma tant’è...) di essere un tutto unico rispetto a quello occidentale. L’illusione (sempre la fantasia...) che vi siano segreti fili che legano l’azione alla commedia, l’arte marziale alla magia. Tutto questo, oggi, a quaranta anni dalla morte di Bruce Lee è stupefacente. Perché se è vero che altre cinematografie si sono costruite solide basi da cui partire per l’evoluzione (basti pensare al thriller americano attuale che è una rivisitazione in chiave urbana del western o del noir francese che rivede e rilegge se stesso), quella orientale è una produzione che ogni anno riserva sorprese e salta da un filone all’altro, avanti e indietro con una carica eclettica stupefacente.

E solo oggi che guardo alla “nostra” tradizione di quegli anni senza più il pregiudizio che mortificava i film italiani di genere classificandoli di default come inferiori, mi rendo conto di quanto noi fossimo simili a loro. Ancora una volta mi ritrovo a condividere certe passioni tarantiniane, a capirle, a far mia l’idea che chi vuol fare davvero l’intrattenimento deve mangiare abbuffandosi il cinema B e anche quello Z per trovare piccoli gioielli nascosti. Mi rendo conto che il nostro cinema era così, capace di far tutto con niente, di inventarsi soluzioni, di osare dove gli altri si fermavano. Era capace di divertire e commuovere, di spaventare ed emozionare. Ma il nostro cinema, malgrado coraggiosi e spesso sfortunati tentativi, è morto. E ho seri dubbi che possa risorgere.