Nelle precedenti puntate di questo speciale abbiamo incontrato l’Incubo e le sue nove compagne o la cavalla della notte e i suoi nove puledri: cioè gli sforzi dei traduttori italiani per rendere la filastrocca del Re Lear shakespeariano «He met the Night-Mare / and her nine foals».

Come abbiamo visto, generato dall’antico sassone il termine nightmare ha vissuto una doppia vita: termine scientifico per identificare una patologia del sonno e termine popolano per indicare un demone notturno. Come renderlo al meglio in italiano?

Alcuni traduttori hanno scelto l’accezione scientifica ed hanno utilizzato un corrispettivo italiano, “incubo”, termine egualmente d’élite. Altri traduttori hanno saputo cogliere il fatto che Shakespeare stesse citando una parola usata dal popolo, quindi hanno scelto un termine nato anch’esso dal mondo delle scaramanzie popolane: “versiera”. Ma questa indica una strega, ci vorrebbe qualcosa di più legato al mondo dei sogni: come venivano chiamati i sogni ai tempi di Shakespeare? Non si usava certo il termine “incubo”, legato al latino medievale e quindi “termine alto”, e visto che i sogni sono immagini che appaiono nella mente, per tutti sin dalla nascita dell’italiano i sogni sono stati... fantasmi!

Tanto i tre padri della lingua italiana - Dante, Petrarca e Boccaccio - che i grandi letterati dei secoli successivi hanno indicato i brutti sogni con un termine che in greco significa “apparizione”, differenziando bene tra il maschile fantasma e il femminile fantasima. Quest’ultimo termine è ormai praticamente in disuso, ma ha conosciuto un passato illustre.

Quando nel Vangelo di Matteo viene raccontato il celebre episodio in cui Gesù cammina sulle acque, lo stupore di chi assiste all’evento viene così descritto: «E i discepoli, vedendolo camminar sopra il mare, si turbarono, dicendo: Egli è un fantasma. E di paura gridarono» (14,26). Il Vangelo di Marco racconta lo stesso episodio (6,49) ed usa lo stesso termine greco: φάντασμα, fàntasma. (Anche Giovanni riporta l’evento, 6,19, ma tace il commento dei fedeli.) Per rendere questo passo, il calvinista Giovanni Diodati nella Ginevra del 1607 utilizzò il termine “fantasima”: oggi tanto l’edizione Diodati che le altre edizioni riportano “fantasma”, al maschile, ma all’epoca il traduttore seppe cogliere al meglio lo spirito del suo tempo. Non è in fondo questo che dovrebbe fare un traduttore?

Finora abbiamo incontrato un solo “incubo”: ma cosa dovrebbe fare un traduttore di fronte a ben tre incubi in rapida sequenza? È il problema che per primo si trovò davanti Giuseppe Gazzino quando, nel 1857 - qualche decennio dopo i primi sforzi di tradurre Shakespeare in italiano - si imbarcò nell’arduo compito di tradurre uno dei grandi classici della letteratura di sempre: il Faust di Johann Wolfgang von Goethe.

Ma andiamo con ordine.

             

Seconda edizione del Faust tradotto da Gazzino
Seconda edizione del Faust tradotto da Gazzino
Nel 1832 il celebre poeta tedesco dà alle stampe la seconda parte del suo capolavoro - in realtà la terza, se si conta anche il giovanile Urfaust - chiamandola semplicemente Faust. Zweiter Teil. Faust, seconda parte. Qui Goethe riversa tutto il suo amore per il classicismo, che in quel periodo si contrappone fortemente al romanticismo che sta conquistando l’Europa: come meglio testimoniare l’amore per i classici se non inserendo come personaggio femminile la mitologica Elena dei poemi omerici?

Ne è passato di tempo dall’Iliade e l’Odissea, e tanti altri autori hanno riscritto il personaggio: la Elena del Faust soffre dell’abuso letterario che è stato fatto di lei. In un punto dell’atto terzo la donna è pressata dal personaggio di Forciade che le ricorda i passati splendori ed amori attingendo alle varie versioni del suo mito, riportandole alla memoria anche di quando si fece vedere contemporaneamente a Troia e in Egitto. Goethe si diverte a ripescare una storia raccontata da Erodoto su Elena e a fonderla con gli eventi dei drammi omerici, ma anche a reinventare il personaggio per la propria opera. Ad Elena tornano alle mente varie memorie di vita, a seconda dell’autore che l’ha scritta, e quando le viene ricordato Achille che (secondo un’altra variante ancora del mito) fuggì dal mondo delle ombre per congiungersi con lei, Elena esplode di dolore: «Ich als Idol, ihm dem Idol verband ich mich. / Es war ein Traum, so sagen ja die Worte selbst. / Ich schwinde hin und werde selbst mir ein Idol».

Come tradurre in italiano lo sfogo di un personaggio che si rende conto di essere stato null’altro che un sogno di qualcun altro?

              

«Io, come larva, a lui larva mi avvinsi. / Fu sogno. E già lo dicon le parole. / Svengo. E larva son fatta agli occhi miei». Così il germanista romano Vincenzo Errante traduce durante la Prima guerra mondiale, seguito nel 1965 da Giovanni Vittorio Amoretti («Come larva mi unii a lui larva»). Cos’è una “larva”, accantonando il significato entomologico?

«Credesi originata questa voce da Lares, - ci spiega il dizionario Barberi del 1839 - con tal differenza, che i Lari erano benefici e protettori delle case, laddove la Larva era un Genio errante e malefico che, prendendo forme orribili, incuteva spavento e terrore.» Larva era anche il nome della maschera che copre il volto: lo sa bene il buon vecchio Rigoletto verdiano, quando canta «Ch’io pur mi mascheri, / A me una larva!». Un’immagine finta che diventa reale addosso al nostro volto, una “fantasia”... ed infatti, sempre a detta del Barberi, “larva” ha come sinonimo “fantasima”.

Elena (Frederick Sandys, 1867)
Elena (Frederick Sandys, 1867)
L’Idol di Goethe non è proprio l’idolo come noi oggi lo intendiamo, qualcosa o qualcuno che viene amato e rispettato, bensì un ritorno al senso “biblico” del termine greco είδωλον, èidolon, che sta ad indicare qualcosa che si mostra (proprio come il φάντασμα, fàntasma, di cui è sinonimo), ma virato in negativo. Basti ricordare l’Esodo (20,4), «non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo», perché l’idolo è un’immagine ingannatrice, una rappresentazione menzognera della realtà. Ce lo confermano i Salmi (114,4-8), «Gli idoli [...] hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono. [...] Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida.»

L’idolo è immagine vuota, ma attenzione: è materia concreta. È anzi l’immagine che si concretizza e quindi tradisce il significato dell’immagine che sta imitando: l’èidolon è insomma una fantasima, cioè un’idea che appare nella mente (fàntasma) ma che si mostra all’esterno (èidolon). E lo intese bene il genovese Giuseppe Gazzino quando a metà Ottocento per primo tradusse in italiano il Fausto, così rendendo l’accorato sfogo di Elena: «Io, fantasima, stringomi ad esso lui, fantasima del pari; era quello un sogno, le stesse parole ne fanno fede: io mi svengo, e addivengo per me stessa un fantasima».

Ich als Idol, grida Elena, ma anche ein Traum, un sogno: la fantasima della notte, il nightmare, l’incubo, ma anche il sogno. «Le stesse parole ne fanno fede», lo dicono le parole stesse: Goethe sa perfettamente che sta giocando con l’incubo, l’idolo e la fantasima, che sta camminando su un filo lessicale, ma ne ha bisogno per rendere il profondo sconforto di un personaggio che all’improvviso e in modo deflagrante perde il contatto con se stesso e diventa idolo ai propri stessi occhi: la storia di Elena, nata dalla fantasia degli scrittori, diventa fantasma per lei stessa, la quale capisce di essere null’altro che personaggio, null’altro che immagine. Null’altro che una fantasima.

«Quando Elena si sveglia, accetta la sua esistenza di finzione»: così Barbara Laman nel 2004 rende alla perfezione il gioco letterario di un personaggio che prende coscienza della propria irrealtà.

             

Mosaico romano del primo secolo a.C.
Mosaico romano del primo secolo a.C.
In questo speciale siamo partiti da un antico termine sassone, nachtmarë, storpiato dal popolo per scacciare il demone notturno che ne prese il nome, nightmare. Viaggiando nei modi con cui si è cercato di tradurlo abbiamo scoperto il mondo dell’apparenza: l’idolo, che è sinonimo di larva (maschera), che è sinonimo di fantasma. Che sia forse questo il vero nightmare, il vero incubo: che tutto è apparenza?

Abbiamo incontrato lo sfogo della Elena di Goethe, il suo dolore nel rendersi conto di essere null’altro che un idolo, una finzione letteraria. Ma è il nostro sconforto, non solo quello di Elena: e se fossimo tutti noi idoli di noi stessi? Se fossimo noi i nostri incubi?

Non ci costruiamo forse tutti un’immagine di noi stessi che cerchiamo di rendere reale? Non viviamo forse in un mondo di immagini che aspirano alla realtà e, se ci riescono, le chiamiamo idoli? Se fossimo noi null’altro che fantasime, cavalle della notte che corrono con le loro nove compagne?

Preferiamo non pensare a queste cose, preferiamo voltare le spalle allo sfogo di Elena e indossare una larva, sperando che una maschera non faccia notare che siamo maschere anche noi. Forse i latini l’avevano capito meglio di chiunque altro, e alla maschera utilizzata dagli attori teatrali avevano dato un nome ben preciso: persona.