Il mondo è «una Scacchiera di Notti e Giorni dove il Destino gioca con gli Uomini: / li muove di qua e di là - dà scacco e li uccide, / e uno dopo l'altro li ripone nella Custodia»: così scriveva nel XII secolo il grande poeta e filosofo persiano Omar Khayyām (nella traduzione di Vittoria De Santis).

Chi ha il potere muove gli uomini come pedine, e tutti i più grandi potenti hanno giocato a scacchi: ecco alcune storie dall’intenso sapore di leggenda.

           

Nell’ottobre del 1809 c’è grande fermento vicino Vienna, più precisamente al castello di Schönbrunn, perché si sta stilando un accordo di pace tra francesi ed austriaci: fra i potenti che risiedono al castello il più illustre (e il più potente) è Napoleone Bonaparte.

Una sera gli viene presentato un inventore, tale Mälzel, che ha portato uno strumento che sta destando meraviglia ovunque: un meccanismo automatico che però non convince l’Imperatore. Il mondo è in guerra, afferma Napoleone, e gli inventori dovrebbero pensare a creare arti artificiali per i soldati resi invalidi: ma se vuole davvero stupire l’Imperatore, Mälzel dovrà inventare anche una testa artificiale.

«Ma io l’ho già fatto, sire» è la risposta dell’uomo. «Una testa che si muove, che apre e chiude gli occhi e... che pensa!»

Davanti all’incredulità di Napoleone, Mälzel non può far altro che proporre quello che lo sta rendendo famoso in tutta Europa: una partita a scacchi con il suo uomo automatico (vestito come un turco) per provare che esso è in grado di pensare. «Se sua maestà converrà che sia necessario pensare per giocare a scacchi - è il sofismo dell’inventore, - allora il mio uomo artificiale è in grado di pensare.»

Il giocatore di scacchi automatico, detto Il Turco (ricostruzione)
Il giocatore di scacchi automatico, detto Il Turco (ricostruzione)
«Così è questo il tanto celebrato “giocatore di scacchi”?» chiede Napoleone una volta di fronte al macchinario di Mälzel. «Il volto è fatto di cera, ma chi mi garantisce che non ci sia un uomo al suo interno?» Per convincerlo, l’inventore muove una leva e sgancia la testa via dal corpo. «Hai ragione: sono convinto» è la sbrigativa risposta del Bonaparte.

Chiesta la massima riservatezza, con l’inventore seduto accanto l’Imperatore comincia la partita, iniziando subito dopo la macchina, la quale apre muovendo di due caselle il pedone di Re. Per testare l’attenzione della macchina, Napoleone d’un tratto usa l’alfiere come se fosse un cavallo: l’uomo artificiale non ci casca, scuote la testa e corregge la mossa. «Ah, non gli piacciono i trucchi», commenta divertito l’Imperatore. «È un giocatore onesto e coscienzioso.»

Lo stesso non si può dire del Bonaparte, che prova ancora a imbrogliare quando si rende conto che l’automa sta vincendo la partita. Alla terza volta che la macchina gli corregge la mossa, e resosi conto che non può vincere, Napoleone si inacidisce. «Ah, si rifiuta di continuare il gioco» afferma, per mascherare che è lui a non voler continuare. «Disprezza i miei imbrogli, ma dimentica che è esso stesso un imbroglio. Deve essere contento, signor Mälzel, di non essere più nel Medio Evo: sarebbe sicuramente finito sul rogo per stregoneria, tentando di fare ciò che solo Dio può fare.»

L’inventore capisce che la situazione sta prendendo una brutta piega, e si sbriga a precisare. «Sire, permettetemi di sottolineare che la macchina non è una mia invenzione ma di Kempeler»: come mai non l’ha detto prima, quando è stato presentato all’Imperatore?

La partita finisce con Bonaparte che se na va stizzito.

         

Louise Muhlbach
Louise Muhlbach
Quanto finora si è raccontato non è un evento storico, bensì un passo di un romanzo di Louise Mühlbach, prolifica scrittrice ottocentesca che si fece una grande (ma breve) fama nella seconda metà dell’Ottocento per i suoi grandi affreschi storici. Questo romanzo in particolare - il cui passo è presso dall’edizione inglese, Napoleon and the Queen of Prussia: an historical novel - è stato scritto proprio l’anno successivo a quel 1854 che segna la distruzione del Turco: l’automa di Wolfgang von Kempelen che dal 1769 aveva abbindolato i giocatori di scacchi di tutta Europa, la cui opera continuò con Johann Nepomuk Mälzel. Con un mingherlino maestro di scacchi al suo interno, il Turco nel 1836 aveva fatto scrivere ad Edgar Allan Poe un articolo che sarebbe diventato celebre e - come ha ribadito Giulio Leoni anche qui a ThrillerMagazine - è stata la prima scintilla della detective story, quell’impulso all’indagine letteraria che avrebbe portato alla nascita di quello che noi oggi chiamiamo “romanzo giallo”.

La Mühlbach ha letto l’articolo di Poe? Come si è visto mette in bocca a Napoleone il dubbio che all’interno del Turco ci sia un uomo, cioè la conclusione del lavoro di analisi di Poe. O forse aveva letto questo passo: «Abbiamo saputo che Napoleone, come Alessandro per sciogliere il nodo gordiano, voleva far rompere la macchina onde vedere ciò che vi era nell’interno», scritto nel 1839, una volta risolto l’enigma, da George Walker nel suo Il segreto del famoso automa che giuocava a scacchi.)

           

Napoleone amava giocare a scacchi, e lo faceva anche durante il suo esilio a Sant’Elena, come amò sottolineare anche il regista romeno Lupu Pick nel suo film Sant’Elena (Napoleon auf St. Helena, 1929), da cui il fotogramma qui riportato.

Pick avrebbe potuto girare quel film in modo molto diverso, se non fosse morto nel 1931 non conoscendo mai una scoperta fatta solo due anni dopo. Se infatti il buon Bonaparte fosse stato più attento agli scacchi che gli erano arrivati a Sant’Elena, avrebbe scoperto nascosto nei pezzi un piano per fuggire dall’isola, ordito da amici che però non erano riusciti ad avvertirlo. Il piano è ancora lì, scoperto in occasione della mostra di cimeli napoleonici del 1933 al castello di Austerlitz, come ci racconta Marco Lucchetti nel suo La battaglia dei tre imperatori (Newton Compton 2012).

            

Passano cento anni esatti, ma il posto rimane lo stesso. Vienna, 1909.

Qui il russo trentanovenne Vladimir Il’ič Ul’janov, meglio noto con il suo nome di battaglia Lenin, vive in esilio mentre attende il momento giusto per tornare in patria. Passa il tempo giocando a scacchi, ed un giorno accetta l’invito di una maestra d’arte, Emma Lowenstramm, di fare una partita mentre lei ritrae la scena. A casa di una famiglia ebraica, Lenin incontra il suo avversario, cioè uno degli studenti d’arte della Lowenstramm, uno squattrinato che ha idee forti che gli frullano per la testa: un ventenne di nome Adolf Hitler.

Lenin e Hitler giocano a scacchi mentre la Lowenstramm ritrae l’evento con uno schizzo, conservando poi anche la scacchiera utilizzata. Il Novecento irrompe con la sua rudezza e la famiglia ebraica che possiede sia il ritratto che la scacchiera deve venderli, e recentemente entrambi sono stati ritrovati e venduti per cifre che si aggirano sui 100 mila dollari.

Malgrado il proprietario abbia presentato una documentazione di trecento pagine per documentarne l’autenticità, questo ritratto si avvicina più al mito che alla realtà, visto anche che nessuno sa chi diavolo sia questa Emma Lowenstramm. Resta però il fascino di pensare due delle figure che hanno cambiato il mondo, da due fronti diversi, che si affrontano a scacchi: peccato non si sappia chi ha vinto.

            

Ad un altro nome dittatoriale vengono attribuite mitiche partite di scacchi: Iosif Vissarionovič Džugašvili, meglio noto con il nome di battaglia Stalin.

Quand’ancora è in vita già si diffondono leggende sulle sue grandi imprese scacchistiche, e ancora oggi è facile trovare particolareggiate specifiche di sue partite, ma gli esperti sono abbastanza concordi nel definire il tutto una mera trovata pubblicitaria.

Gli scacchi però sono un potente simbolo russo, quindi non è detto che Stalin non giocasse in privato. O almeno così afferma una guida turistica della piccola Abcasia, regione secessionista della Georgia che si affaccia sul Mar Nero. Qui, in un periodo non meglio specificato, il giornalista italo-sloveno Demetrio Volcic si trova in visita come membro di una delegazione dell’Unione Europea.

L’unico edificio integro della zona, capace di ospitare la delegazione, è una delle ex ville di Stalin, all’interno della quale una guida locale illustra al giornalista molti mobili e suppellettili appartenuti al dittatore. «Nella sala dei biliardi si trovano anche alcune scacchiere con le figure già messe in ordine, come se la prossima partita dovesse cominciare subito», spiega Volcic nel suo audiodocumentario 1956: Krusciov contro Stalin (puntata del 2 marzo 2006).

La guida informa che Stalin giocava quasi sempre con il fido Berija, suo terribile mastino nonché capo della polizia segreta, e che per sé pretendeva sempre i bianchi: non c’è assolutamente da aggiungere che odiava perdere.

«Significa che il Re che vedo sul tavolo non ha mai perso una sola partita nella sua esistenza di legno» è il commento di Volcic, che accetta di buon grado l’offerta della guida di portarsi via la pedina in regalo. «Così anch’io ho a casa qualcosa esente da sconfitta nella sua esistenza.»

Possibile che la guida regali ad ogni visitatore importante un Re degli scacchi di Stalin? Non è che in cantina conservi una bella scorta di pedine ad uso e consumo dei visitatori? Anche questa è una delle leggende scacchistiche che avvolgono gli uomini di potere.

        

Chiudiamo con un altro passaggio di Khayyām, forse una traduzione diversa di quello citato all’inizio. (Le traduzioni di Khayyām usano più numerazioni diverse di quante sono le sue quartine!)

«Noi siamo dei pezzi da gioco, e il cielo è il giocatore. / Giochiamo una partita sulla scacchiera della vita, / e ad uno ad uno ce ne torniamo nella cassetta del Nulla» (Traduzione di Francesco Gabrieli).