In questi giorni Il Giallo Mondadori pubblica Tutto quel rosso, seconda attesissima prova di Cristiana Astori come autrice di romanzi lunghi. Una trama del tutto originale che innesca il ricordo di Profondo Rosso in maniera sottile e non pedante. Come potrebbe essere altrimenti? Torna Susanna Marino in un intrico d’angoscia e suspense che pulsa di atmosfere da “Thrilling”.

Rivedere il film mi ha suggerito alcuni spunti di riflessione sulla miglior narrativa gialla italiana di oggi della quale Cristiana è una delle più convincenti interpreti.

         

Il thrilling italiano è, a mio avviso, una delle fonti di maggior ispirazione dei giallisti della mia generazione e delle successive. Forse perché io considero gli anni ’70, anni di formazione, forse perché, allora, di cose interessanti ce n’erano davvero molte. Quando penso a un giallo italiano, benché non manchino esempi letterari illustri da sempre, vedo come modello il cinema di quelle stagioni. Tra tutti i film che periodicamente rivedo per “capire un po’ le regole del gioco” Profondo Rosso di Dario Argento resta un cult.

Vale la pena di rivederlo ogni volta per coglierne i meccanismi, i particolari. Mi piace condividere con voi il mio punto di vista che magari non sempre sarà oro colato e certamente è discutibile. Uno studio appassionato comunque, un tributo a un film che resterà nella memoria e non a caso, non per giochi di marketing. Semplicemente perché è un ottimo film. Un prodotto italiano di cui andare fieri.

         

Profondo rosso (1975) è il quarto della prima serie di Argento; doveva far parte del bestiario (tanto che il titolo di lavorazione era La tigre dai denti a sciabola) ma qualcosa, rispetto ai precedenti film, era cambiato. Azzeccato quindi il titolo, semplice, efficace come il manifesto con quella macchia rossa in cui si riflette il viso di David Hemmings proprio come nel film il volto dell’assassino si riflette in uno specchio, confusamente, per un istante indimenticabile che crea l’effetto del “particolare mancante”. Una storia di follia, di omicidi commessi per coprire tracce ma, molto probabilmente, anche perché uccidere è una morbosa compulsione nella mente dell’assassino. Inevitabile e inarrestabile.

David Hemmings
David Hemmings
Prima di addentarci in un’analisi particolareggiata occorre dire che Argento gioca al meglio con il medium cinematografico riunendo sceneggiatura, interpretazione, movimenti di macchina e musica in un cocktail che è, al tempo stesso, nuovo e tradizionale. L’inserimento delle musiche di Gaslini eseguite dai Goblin in chiave hard rock diventerà un classico, ma accostare alla brutalità omicida (si veda la morte della medium Helga o del professor Giordani che picchia su tutti gli spigoli della sua casa proiettando sullo spettatore sensazioni di dolore vero magari sperimentato in misura minore in qualche occasione) con il tono da commedia sofisticata americana dei duetti Hemmings-Nicolodi è un vero tocco di genio. Il cinema (TUTTO il cinema non solo quello della paura) in sintesi.

        

Brevemente rivediamo la trama. Ricordiamoci però che la storia è solo un pretesto per giocare con le sensazioni. Logica e cartesiana limpidezza dell’intreccio, inteso come “whodunit” non c’entrano. Non per errore ma per voluta direttiva del regista.

Un trauma infantile. Una donna, attrice un tempo di successo, ora malata di mente, probabilmente pericolosa, compie un delitto uccidendo il coniuge la vigilia di Natale. Il movente è il rifiuto di un ennesimo ricovero in clinica. Tutto consumato sotto gli occhi di un biondo fanciullo con l’accompagnamento di una musichetta infantile e gioiosa. Vediamo a tratti questa tragedia, volutamente spezzata per indurre lo spettatore su strade lontane dalla verità. Di quella follia che i “macro” di oggetti semplici ma terrificanti nella loro composizione ci troviamo di fronte nelle prime scene, sarebbero rimaste solo le urla udite nei pressi di una villa non ben identificata alale porte di Roma. Roba da leggende urbane, finita appunto su un libello da mercatini. È la presenza di una sensitiva che coglie tra gli spettatori “pensieri malvagi” a scatenare una serie di omicidi che coinvolgono in qualità di riottoso testimone il jazzista Mark Daly. Questi dalla piazza sottostante dove filosofeggia sul nichilismo dell’amico Marco, pianista distrutto dall’alcol, ode l’urlo della sensitiva assassinata. Accorre in suo aiuto e vede qualcosa, “qualcosa” di importante ma che al momento non ricorda. Gianna Brezzi, giornalista ficcanaso che un po’ è innamorata di Daly un po’ sogna lo scoop, crea un bel pasticcio, citando un testimone oculare in grado di smascherare l’assassino. Da qui comincia una partita fatta di indagini, di soppressioni di testimoni, tutto condito con una potente dose di simbolismi magici, di suggestioni, di sangue versato in maniera efferata. Mark e Gianna sono ben poco aiutati dal commissario Calcabrini, interpretato da Eros Pagni, simpatico ma totalmente imbecille (emblematica e indimenticabile la battuta: «Ah, così lei è musicista? Ma cosa fa di lavoro davvero nella vita?»). Il professor Giordani (Glauco Mauri) sarebbe più utile e così la scrittrice Amanda Righetti (Giuliana Calandra) se l’assassino non chiudesse a entrambi la bocca in maniera teatrale.

Perché, si domanda lo spettatore? Perché mettere in scena delitti complicati con il solo scopo di mostrare cose che solo il morto vede? Per spaventarlo? Ma non era un semplice ostacolo da eliminare? Non ponetevi questa domanda e godetevi il brivido. L’assassino è pazzo, quale altra motivazione vorreste per i suoi atti? E intanto arriviamo a sospettare di Marco, giovane travagliato, caratterizzato come omosessuale, così bravo (Gabriele Lavia) da rubare la scena a Hemmings. Ma non è lui l’assassino, bensì la madre, Clara Calamai, descritta prima come innocua vecchierella fuori di testa ma, alla fine, insospettabilmente dotata per omicidi anche fisicamente impegnativi. Sempre la forza della follia. Quella pazzia che decide per Marco una morte “accidentale” ma atroce e per sua madre una punizione esemplare, letteralmente messa in moto dai meccanismi di un ascensore.

         

Giallo non certo “a prova di bomba” sul piano della logica, forse insostenibile in forma scritta ma assolutamente geniale sullo schermo. Vediamo perché.

Argento gioca soprattutto sull’accumulo di emozioni. La struttura “gialla” del suo racconto benché supportata da frequenti spiegazioni, deduzioni, rimandi da un dettaglio a un altro è una impalcatura attorno alla quale è costruito un palazzo che palpita di emozioni visive, sonore, di allusioni e stati d’animo. Per cui il “particolare mancante”, l’indizio contenuto in un vecchio libro di leggende, un disegno preso da un archivio sono strumenti che servono al regista per solleticare l’immaginazione dello spettatore. Questa continuamente punzecchiata da ipotesi sulla naturale l’identità del criminale che ci appare onnipotente, onnisciente, capace di indovinare ogni mossa degli altri personaggi e prevenirla, spesso in modo sanguinoso. Gli spazi vuoti, gli arredi sontuosi, macabri della casa della medium, stravaganti dell’appartamento del travestito che ospita Carlo, sono oggetti di scena. Il protagonista è solo in un ambiente ostile che riecheggia le sue stesse paure, i timori nascosti.

I movimenti di macchina, lenti circolari rispecchiano di volta in volta l’occhio del protagonista, dell’assassino, dello spettatore che diventano tutt’uno. E qui particolari apparentemente estranei alla vicenda contribuiscono ad alzare la tensione. Nicoletta Elmi, perfida bambina dai capelli rossi che si morde il labbro e tortura gli animali, non ha un diretto legame con l’assassino ma fa la sua parte per creare tensione. Esattamente come i merli della Calandra e il Mad Puppet azionato in casa di Glauco Mauri.

Ripeto, non esiste che un labile filo logico tra tutti questi elementi ma insieme creano un’opera corale, un’esperienza terrificante che Argento mette in scena per strappare lo spettatore del mondo reale e proiettarlo in un universo “suo” dominato dai pensieri “malvagi” dell’assassino ma che, riconosciamolo, si annidano dentro di noi.

       

Un’ultima annotazione. Antonio Tentori nel suo Sotto gli occhi dell’assassino parlando di Trauma cita una diversa versione della scena iniziale ambientata nel convegno di parapsicologi. Pare che in una versione precedente di sceneggiatura il frammento fosse inserito in una seduta spiritica che, per ragioni di plausibilità del racconto (l’assassino di cui Helga sente la presenza si allontana cosa che nel quadro casalingo della seduta era impossibile) venne poi cambiata e spostata nel film del 1993. Piccole curiosità che alimentano il mito.