Primo capitolo del romanzo Il Cardo e la cura del sole. La mummia della baia di Massimo Tallone, per gentile concessione di Fratelli Frilli Editori (ISBN 978-88-7563-787-3)

L’olfatto non è un senso, è un sentimento

L’ANTEFATTO

1. Fiorisco

“No, Cardo, niente da fare. Sparisci, vai via, curati, fai qualcosa, ma non farti più vedere da me in queste condizioni. Mi fai paura...”. Non riuscivo a crederci... Non era mai successo... Angela non mi aveva mai detto di no. E credo che sia stata anche la prima volta, più in generale, che rifiutava un cliente.

“Ma Angela...” ho piagnucolato, “lo sai che ho sempre avuto questo...”.

“No, Cardo, così come adesso non l’hai mai avuto...”.

Ero nudo, disteso sul mio pallet a pancia in su, già bello e pronto per il buongiorno dopo la ciucca della sera precedente. Angela è entrata senza bussare nel mio rudere abbandonato, secondo gli accordi di poche ore prima, quando le avevo chiesto di passare da me a fine lavoro. Le avevo anche sventolato sotto il naso il biglietto da venti euro che avevo vinto poco prima ad Aldo, il suo pappone. E lei, puntuale, si è presentata all’appuntamento. Una lama di sole radente, entrata con lei, mi ha ferito gli occhi. Si è avvicinata, mi ha guardato piegandosi in avanti, ha lanciato un urlo ed è arretrata, si è negata, e mi ha lanciato in faccia quelle parole...

“Ma, Angela” le ho risposto guardando là e non trovando nulla di anormale nelle mie misure, pur amplificate dalla fregola. Lei però non è sembrata convinta. Eppure non era certo la prima volta che mi vedeva ingrifato come un mulo. Al contrario, sono anni che mi concede la sua esperienza, la mattina, in cambio di pochi euro.

“No, no, Cardo, niente da fare” ha detto, invece, “sei mostruoso. Stavolta è davvero troppo... Troppo... Devi farti curare, Cardo. Io non ti tocco. Ho anche paura che tu sia contagioso...”.

“Contagioso?” ho mormorato, stupito, balzando in piedi, “ma se mi fai sempre lavare il fagiolone, prima; e gli metti tu stessa l’impermeabile alla fragola lavorando in punta di incisivi... Contagioso... E poi nemmeno le tocco le tue colleghe, da anni, lo sai... Mi piaci solo tu”.

“La faccia, Cardo, sto parlando della faccia, non del tuo carciofo” ha detto con tono da soldato, e se ne è andata.

Sono rimasto lì a pensare, nudo, dritto dritto (devo proprio spiegare la ripetizione?) sul mio amato pallet, che poi potrebbe meritare anche il titolo di letto, dato che gli ho sbattuto sopra, tempo fa, un materasso fregato in discarica. La faccia... Dovevo guardarmi la faccia, secondo Angela. Allora ho cercato uno specchio, ma poi mi sono ricordato che io non ce l’ho, uno specchio, nemmeno nel cesso, e perciò sono uscito così com’ero e ho raggiunto la tettoia degli attrezzi, oltre lo sterrato dell’aia. Mi sono fatto largo tra i mezzi agricoli abbandonati, ho raggiunto l’aratro, mi sono accovacciato vicino alla lama più esterna e ho cominciato a pulirla sputandomi in una mano. E mentre c’ero ho anche pisciato, favorito da quella postura da scimmia che sgrava. Un minuto dopo, sfrega e sfrega, il ferro è apparso lucente sotto la polvere e mi sono visto riflesso in quella porzione di metallo non corrosa dall’aria e dall’umidità. E ho capito. Già, perché lì, bislunga e deformata dalla convessità della lama, ho visto la mia faccia e ho capito perché Angela era scappata terrorizzata. Non riuscivo a credere all’immagine nitida se pure distorta che il metallo rifletteva... Ho guardato e riguardato, toccandomi la faccia con la punta delle dita per fare credere al tatto ciò che la vista non voleva vedere, ma era tutto vero. Era vero... Tra la parte alta della fronte e l’attaccatura dei miei pochi capelli ridotti a cespugli, e anche in mezzo alla testa, fra le chiazze irregolari di alopecia, erano apparse numerose squame bianche, scaglie secche e spesse che cadevano senza rumore se soltanto le sfioravo con l’indice, o che piovevano in briciole diffuse, come parmigiano grattugiato, appena scuotevo un po’ la testa. E ce n’erano altre sugli zigomi, sotto le basette, e sulle sopracciglia, fra gli occhi... Insomma, la lama dell’aratro mi stava restituendo l’immagine di un mostro fiorito che si sbriciola.

“Cazzo” ho detto ad alta voce, “ho la lebbra”.