La nostra rubrica ha sempre trattato di criminalità, di omicidi commessi in una civiltà che si dice moderna e tollerante notandone spesso le ‘sbavature’. Ma vi sono anche quei crimini che pur non definendosi tali nell’eccezione più ampia del termine, portano sempre all’uccisione di persone innocenti. Ecco perché la nostra attenzione trova humus anche in quelle società in cui la guerra detta i precetti della quotidianità. La guerra a Kabul ha modificato la sua morfologia per sempre. La capitale più grande dell’Afghanistan oggi ha strade polverose, edifici fatiscenti, filo spinato che vuole impedire l’accesso o l’uscita da un determinato luogo, lastroni di cemento issati intorno alle ambasciate nei luoghi ‘caldi’, ispezioni militari continue con sbarre che impediscono il passaggio se non previo un rigido controllo. L’aspetto più archetipo delle nefandezze legittimate sotto l’egida della conquista, lascia spazio alla domanda che seppur retorica, si chiede come sia possibile commettere tanti crimini in nome di una guerra che come diceva Plutarco, mandava i poveri a combattere e morire per i capricci, le ricchezze e il superfluo di altri…  Il nostro sguardo oggi però è puntato su chi cerca di rendere meno dura la vita di coloro che vivono quei luoghi, provando a trasformare la guerra in sopravvivenza. A volte è sufficiente un sms per scongiurare la morte, è ciò che ci ha insegnato nella sua esperienza a Kabul Chiara Cataldi, che operativa all’interno dell’Ambasciata italiana, ha vissuto un anno tra gli scoppi dei cannoni, i sorrisi dei bambini e la morte. Il suo libro Prima bevi il tè, poi fai la guerra edito da Stampa Alternativa è un racconto lucido, tangibile, che cerca di spiegare a chi non l’ha vissuta, cosa significa vivere in un luogo di guerra, a come si cerchi la normalità a tutti i costi e come il rito del tè sia rimasto un momento custodito con gelosia da coloro che, anche se perso tutto, sentono di appartenere a quella terra violentata e alle sue tradizioni. Aveva ragione Gandhi nel dichiarare ‘occhio per occhio… si diventa tutti ciechi’?

Nella nostra rubrica parliamo di crimine, i conflitti secondo te sono un crimine legalizzato?

“Sì… penso soprattutto ai conflitti che coinvolgono i civili.” 

Durante una guerra uccidere diventa un fatto ordinario?

“Purtroppo sì. E le uccisioni che avvengono in paesi come l’Afghanistan, dove è in corso una guerra civile, non sono singoli omicidi, ma stragi di massa. Chi mette una bomba in un centro commerciale o ad un matrimonio non ha scrupoli, vuole semplicemente far fuori il maggior numero di persone possibile.” 

Sei stata a Kabul, hai visto timore nella popolazione?

“Timore non è la parola giusta… chi ha vissuto solo guerra per trent’anni e ha visto morire parenti e amici, non ha più timore.

Negli occhi degli afghani ho visto la rassegnazione, l’abitudine a quel triste stato di cose. Ma a volte ho visto anche la perseveranza  e la forza d’animo del popolo afghano.” 

Che tipo di aspettative hanno le persone che vivono in una zona di guerra?

“Non hanno molte aspettative, purtroppo. Vivono alla giornata perché sanno che non possono fare altro. Al massimo sperano in un futuro migliore, ma senza grande convinzione. Questo accade per la maggioranza della popolazione. Poi c’è anche qualcuno che reagisce e cerca da solo un destino migliore. Ma sono pochi e sono costretti quasi sempre ad andare via dal loro paese per farlo.” 

Hai svolto mansioni varie ma ti sei definita addetta alla sicurezza dei cittadini italiani presenti nel paese, ci spieghi meglio di cosa ti sei occupata?

“Il mio compito era principalmente quello di mantenere i rapporti con i connazionali (civili) presenti in Afghanistan, monitorarne l’entrata e l’uscita dal paese, i loro spostamenti, registrarne i dati (indirizzo del domicilio, contatti, perfino il gruppo sanguigno) in modo da riuscire a contattarli in ogni istante ed essere in grado di intervenire in caso di emergenza. Per esempio, mi capitava spesso di inviare messaggi di sicurezza tramite e-mail ed sms (i così detti “security warnings”) segnalando la possibilità di attentati, rapimenti o autobombe…” 

Com’è la vita a Kabul?

“È totalmente diversa dalla vita che conduciamo in occidente: le limitazioni alla libertà personale sono notevoli e si vive come se il tempo fosse dilatato, forse perché tutto è caratterizzato dalla lentezza, il traffico, le trattative per gli acquisti, il rito del tè.

Non è però una vita pervasa dalla paura. La paura passa dopo i primi giorni, e lascia spazio alla curiosità e alla quotidianità. Diciamo che ci si allinea allo stile di vita degli Afghani e non si fa più troppo caso all’idea di essere ‘in guerra’. Si vive, appunto, alla giornata.” 

Cosa ti ha dato questa esperienza?

“Mi ha dato la possibilità di rovesciare il mio punto di vista e di vedere tutto da un’altra prospettiva. È stato come se per un anno intero avessi osservato la mia ‘vecchia vita occidentale’ dalla luna. Ci si rende conto della fortuna che abbiamo a poter fare una passeggiata la sera senza paura di rapimenti, o decidere di andare al cinema, o mettersi in costume sulla spiaggia. Sono cose che diamo per scontate, ma che a pensarci non lo sono per niente.” 

Uccidere cambia le persone?

“Credo proprio di sì. Immagino che dentro si rompa qualcosa, è come un punto di non ritorno. Non puoi più essere la stessa persona.” 

La morte è vissuta con più rassegnazione rispetto a paesi che vivono nella pace?

“Assolutamente sì. La morte diventa parte del quotidiano di un popolo che vive in guerra.”

Quanto influisce la religione nel vivere quotidiano?

“Molto, purtroppo, soprattutto sulla vita delle donne, costrette a coprirsi da capo a piedi, quando va bene solo con un velo, e quando va male invece, con il burqa. Anche se, in questo caso più che la religione è la mentalità degli uomini della famiglia ad influire, sono loro che decidono della vita delle loro donne.” 

Il ricordo più triste che ti porti da questa esperienza?

“Durante una visita al Centro Ortopedico della Croce Rossa Internazionale ho incontrato una mamma che aveva tra le braccia il suo bambino, affetto da macrocefalia, ormai ad uno stadio avanzato.

Il bambino aveva circa 10 mesi, era piccolo ma la testa era davvero sproporzionata. Avevano fatto un viaggio lunghissimo a piedi, dalla Provincia di Bamyian, per sentirsi dire che ormai, a quello stadio così avanzato, era impossibile operare il bambino che sarebbe comunque morto. La mamma (giovanissima) aveva negli occhi quasi una ‘dolce rassegnazione’”. 

E quello più dolce?

“L’abbraccio di Amina, la signora che faceva le pulizie nella guest-house dove abitavo, quando le ho detto che sarei tornata in Italia. Ormai era diventata quasi una mamma. Mi chiedeva sempre quando mi sarei sposata e mi ripeteva che dovevo fare in fretta, per fare poi tanti figli…”

Scrivere un libro ti ha aiutato a ricordare o a rendere meno pesante l’esperienza?

“Scrivere mi ha aiutato a ricordare. È stato un bellissimo viaggio nei ricordi e nelle istantanee mentali di quell’anno così intenso e particolare.”