Terza ed ultima parte del capitolo in anteprima del romanzo storico Il Cavaliere d’Islanda, dall’autrice de “Il mago e l’imperatrice” e “Il sole invincibile”.

Il libro è disponibile in libreria nella Collezione Omnibus Mondadori (ISBN 978-88-04-61607-8).

Si ringrazia l’autrice e la Mondadori per la gentile disponibilità.

Quando si svegliò, un fuoco amichevole e odoroso di resina bruciava accanto a lui.

Una ciotola gli venne avvicinata alle labbra. Un liquido caldo, una infusione di erbe aromatiche. Kveld provò a girare gli occhi intorno, ma un dolore lancinante alla testa lo trafisse. Provò a muovere le gambe e le braccia, e avvertì un tale bruciore che gli parve di ardere su un rogo.

«Non muoverti» disse una voce accanto al suo orecchio. La voce della völva.

Kveld si trovava nella sua capanna, sdraiato su una stuoia. Non ricordava nulla di quanto era accaduto dopo la caduta. Un istante prima di perdere conoscenza aveva creduto che si sarebbe consumato e disciolto insieme agli elementi, ritornando alla materia incosciente che era stato nel ventre di sua madre.

Nei giorni seguenti, la völva gli avrebbe spiegato di come era corsa a chiamare il godhar, e lo aveva guidato in suo soccorso. Il godhar e i suoi parenti lo avevano ripescato arpionandolo e facendolo tirare in salvo dai loro cavalli, e poi trasportato su una barella per feriti fino al villaggio. Ma come faceva la völva a sapere che cosa lo avesse spinto a fuggire da Borg, e dove lui si trovasse? La völva sapeva sempre tutto quello che accadeva, ma in quale modo era impossibile indagare.

«Non muoverti. Guarirai, ma devi rimanere quieto e fermo.»

Il corpo di Kveld era coperto da ustioni, e luccicante di unguenti balsamici. Inginocchiata al suo fianco, la völva gli stava manipolando la mano massacrata. La riaggiustava con un lavoro minuto, delicato e paziente. Stendeva le dita, impastava la carne e le ossa, la rimodellava secondo un altro disegno.

«Hai rischiato di perdere la mano, ma ora è salva. Potrai usarla in battaglia. Perché dovrai combattere ancora e molto. Combatterai per ragioni sbagliate e giuste, amerai e sarai amato, soffrirai e farai molto soffrire. Spargerai sangue e ucciderai.»

«Io non desidero seminare sangue, morte e distruzione.»

«Non si fa mai la propria volontà, figlio.»

«Perché, völva

Voleva ribellarsi alla salvezza che gli era venuta da lei, all’incessante lotta per vivere, che portava gli animali a essere macellati e gli uomini e le donne a degradarsi per un boccone di pane.

«Perché non sono morto?»

«Perché non è arrivato il tuo tempo e devi ancora compiere il destino per cui sei nato.»

«Ma io non posso vivere così. Mi sembra che l’ascia di Egill mi abbia spaccato in due. Io sono mio padre e anche mia madre; non appartengo a questa terra e a nessuna terra. Non appartengo neppure a me stesso. Nessuno può vivere diviso in due.»

Nella penombra rischiarata dalle braci del fuoco, il profilo della völva era quello del girifalco che vola più alto degli altri uccelli, oltre le nuvole. Lo sguardo della profetessa andava oltre i muri, oltre il villaggio, oltre il mare, e oltre quello che c’era al di là del mare. Guardava direttamente nella trama di un arazzo divino. Anche se, come un pezzo di tela ricamata dalle donne d’Islanda, le appariva al rovescio, con nodi aggrovigliati e cuciture oblique.

«Ognuno di noi vive diviso in due, figlio. Esistono dei luminosi e dei oscuri, dei del Giorno e dei della Notte. Nella loro lotta inesauribile, spesso si confondono al punto da non distinguere il corpo dall’ombra. Nella loro lotta mortale, spesso finiscono per copulare come maschio e femmina. Luce e Tenebra, Bene e Male. Ai nostri occhi la notte diventa giorno, ma agli occhi degli dei il nostro giorno è la notte. Ma c’è una via che conduce verso l’origine unica di tutto ciò che esiste, lontano dalla carne e dalla materia, lontano da tutto quello che divide e distingue. Oltre l’infelicità di essere se stessi, e di essere due in uno.»

«Dove? Dove comincia questa via?»

«Segui la moneta che è venuta a te attraverso il mare; raggiungi il paese in cui è stata forgiata.»

«E quel paese è la mia patria? Là avrò una casa, degli amici, e sarò me stesso?»

La völva appoggiò alcune foglie sulla sua mano ferita e la fasciò. In Kveld il dolore stava lasciando il posto al torpore del sonno imminente, a una strana indifferenza che non gli faceva avvertire la lacerazione all’interno della sua anima.