Seconda parte del capitolo in anteprima del romanzo storico Il Cavaliere d’Islanda, dall’autrice de “Il mago e l’imperatrice” e “Il sole invincibile”.

Il libro è disponibile in libreria nella Collezione Omnibus Mondadori (ISBN 978-88-04-61607-8).

Si ringrazia l’autrice e la Mondadori per la gentile disponibilità.

La madre di Kveld era Bera Yngvarsdóttir, figlia di Yngvar, figlio di Bera Egilsdóttir, figlia di Egill. Bella come l’estate islandese, un tempo raggiante come la dea Freya, prima del suo matrimonio con Brian.

A Kveld avevano raccontato che un anno prima della sua nascita un terribile freddo aveva racchiuso l’isola in una bara di ghiaccio per molti mesi e mesi, prolungando l’inverno fino alle soglie dell’estate. Le scorte di cibo erano finite, e non era stato possibile coltivare la terra. Anche gli animali erano stati macellati, perché non c’era foraggio per loro. La carestia aveva imperversato sull’isola. La gente moriva, e si diceva che alcuni disperati avessero mangiato i cadaveri dei loro figli, o avessero ucciso i loro simili per cibarsi di loro. Alla fine di questo castigo che sembrava non dovesse avere fine, Bera, unica sopravvissuta della sua famiglia, ultima della sua stirpe, aveva sposato Brian. Il prete aveva sempre nella sua dispensa granaglie e cibi essiccati, e salmone crudo conservato nel ghiaccio, e un maiale che nutriva con i rifiuti della sua cucina. Il vescovo di Skálholt aveva celebrato le nozze, e il maiale era stato ucciso per la festa nuziale.

Era ancora bella, Bera. Ma come una foglia invasa dai parassiti, come il fiordo che svanisce nella bruma di un crepuscolo di fine anno. Come la sirena della saga dei celti, umiliata nella sua tonaca sporca di grasso di cucina. Imprigionata, lontana dall’estasi dell’azzurro fuoco marino.

Kveld sapeva che sua madre gli aveva recitato la poesia di Egill in un maldestro tentativo di consolarlo, e per indicargli una via di fuga. Gli stava dicendo che sarebbe cresciuto: un giorno sarebbe stato libero, e se ne sarebbe andato dall’isola. Sempre avanti, dove il fato lo avrebbe portato. Come i vichinghi.

«Vai a seppellire quel pezzo di ferro sulla tomba di Egill» gli disse Bera furtivamente, guardandosi intorno. «Là, tuo padre non andrà mai a prenderlo.»

Esisteva infatti un luogo che Brian non avrebbe mai osato profanare, e neppure avvicinare. Era l’antico cimitero pagano in cui era sepolto Egill con gli antenati e i discendenti.

Secondo la leggenda Skalla-Grímr, il padre di Egill, si era stabilito a Borg perché là si trovava la sepoltura di suo padre Kveld Úlfr.

«Vai a seppellire quel pezzo di ferro sulla tomba di Egill, e poi digli che lo hai gettato in mare.»

Se per Brian il cimitero pagano era un luogo maledetto, per Bera corrispondeva a una zona chiusa e tetra del suo animo, in cui si disfacevano i resti di quelli che una volta erano stati i suoi desideri, le sue aspirazioni. Le esalazioni di quella zona, le aveva trasmesse al figlio come un contagio, sempre di nascosto dal marito e padrone. A volte, Kveld pensava di essere il ricettacolo di tutto quanto Bera nascondeva nella sua vita coniugale.

Bera lo aveva incoraggiato a frequentare la capanna della völva e a esercitarsi con l’ascia. Fin da quando era bambino, dopo la recita delle preghiere cristiane, lo aveva addormentato recitandogli la saga di Egill e le poesie della Eddu Kvæði. Era dolce addormentarsi e addentrarsi in un sogno che prolungava le saghe, ma insieme alla poesia e alla dolcezza sua madre gli istillava anche la malafede.

Se Brian l’avesse sorpresa a istruire il figlio sulla storia e le imprese degli antichi vichinghi l’avrebbe battuta, come faceva spesso, del resto, senza ragione. Quando accadeva, Bera accettava le percosse senza un lamento, come tutte le donne vichinghe. Il suo amore per la segretezza e la congiura non nasceva dal timore di Brian, ma dall’orgoglio del suo retaggio e dal disprezzo verso chi non ne era degno.

Kveld avrebbe preferito che sua madre non avesse mai sposato quell’uomo indegno. Che si fosse piuttosto lasciata morire di fame e di freddo, o che avesse fatto come i topi, che quando l’Islanda era unita dal ghiaccio ad altre terre del mondo correvano verso sud in cerca di cibo, o come le volpi, che corrono dietro ai topi per cibarsi di loro.

Per questo, quando sua madre si chinò a baciarlo, si ritrasse. Le labbra di lei erano umide di saliva; il fiato e le mani avevano cattivo odore.