Perché scrivo Segretissimo? Prima di tutto perché lo leggo da tutta una vita. O forse sarebbe meglio dire che “posso scriverlo proprio perché lo leggo sin da quando ero ragazzino”.

La spy story non è un filone facile da affrontare. Decisamente aver visto un paio di film di 007 e letto qualche SAS non è sufficiente. Neanche per un narratore di thriller già sperimentato. Io vi posso parlare della mia esperienza in merito che, ovviamente, non fa testo ma forse può fornire qualche indicazione a chi volesse cimentarsi con la narrativa di spionaggio, almeno nella collana Mondadori che ha compiuto cinquanta anni e di storie ed eroi ne ha visti passare di ogni genere.

Segretissimo ha uno stile suo che è anche differente dalla spy story come genere nato con i primi del secolo e portato a livelli letterari da autori come Len Deighton e John LeCarré. Quello di Segretissimo non è esattamente un mondo differente, parallelo diciamo, e richiede una certa dimestichezza con i suoi ritmi e le sue tematiche per poter essere praticato con successo.

                       

Prima di tutto Segretissimo nasce agli inizi degli anni ’60, prima cioè dell’esplosione del fenomeno cinematografico James Bond del quale sicuramente beneficerà ma che in effetti non ne è all’origine. Di fatto Alberto Tedeschi non amava i romanzi di Ian Fleming e solo con riluttanza accettò di provare una collana da affiancare al Giallo Mondadori basata su storie “nere” decisamente più violente, con molto più sesso di quelle del mistery classico.

OSS117 di Jean Bruce furoreggiava in Francia da già da più di dieci anni e, inizialmente, la collana era dedicata unicamente all’eroe di Jean Bruce. Le copertine non avevano il cerchio ed erano realizzate da Ferenc Pinter che è un altro grandissimo dell’illustrazione pulp italiana. Il suo stile era più evocativo. In seguito con la nuova veste grafica, la numerazione azzerata, subentrò Carlo Jacono che riuscì a catturare gli elementi principali del filone.

Io credo che gran parte della fortuna della collana sia da ricercare nella chiarezza dei contenuti così come venivano mostrati al pubblico. Vicende forti, avventurose, spesso esotiche, di rapida lettura in cui si muovevano uomini decisi a tutto e donne pericolose. Credo che fosse esattamente questo che il lettore cercava allora in Segretissimo e sono convinto che anche oggi, magari rinnovata per stare al passo con i tempi, cerchi la stessa formula.

                      

Io venivo dalla lettura di Emilio Salgari, per cui avevo la testa piena di paesi lontani, scimitarre, tradimenti, agguati. Avevo tredici anni quando lessi il mio primo Segretissimo (“Sayonara”, Sam Durell, di Edward S. Aarons [n. 402]) e di certo quel pizzico di erotismo suggerito nelle copertine e presente nella vicenda non mi era sgradito. Anzi era un elemento fondamentale.

Gli eroi di quegli anni erano molto simili uno all’altro, versioni internazionali dei detective dell’hard boiled, proiettati ai quattro angoli del mondo contro organizzazioni potentissime e tentacolari. No, invece non credo che il risvolto politico (spesso piuttosto marcato come nei romanzi di Nick Carter) avesse una reale importanza. Quello che cercavo era l’avventura, la descrizione abbozzata ma precisa di ambienti esotici, il dialogo fulminante e l’azione descritta in maniera realistica. L’intrigo, il doppio gioco, ma anche l’amicizia, l’onore e sì anche il sentimento e persino la seduzione, giocavano un ruolo fondamentale.

Il segreto stava nella miscela, nell’equilibrio tra i vari elementi. Il protagonista era il re della vicenda, doveva essere subito chiaro chi era per il lettore che doveva identificarsi. Una formula fumettistica? perché no? Dopotutto i fumetti ci hanno regalato magnifiche saghe che non hanno nulla da invidiare a certi romanzi scritti.

In un Segretissimo d’annata non si poteva barare con il lettore. La storia doveva avanzare a ritmo forsennato, indizi e false piste s’intrecciavano con agguati, seduzioni, mortali confronti. L’eroe era sempre in scena, a lui toccava trovare l’indizio rivelatore, compiere le azioni più spericolate. Se mai il riflettore era puntato sui comprimari c’era sempre un motivo.

La caratterizzazione di un nemico, l’incontro tra due comprimari finalizzato a informare il lettore di un particolare importante. Poi si tornava a seguire l’agente, a vivere con lui. E nell’abbinamento della copertina tra la donnina semivestita, il panorama esotico e l’immancabile arma da fuoco era racchiusa la formula per un Segretissimo perfetto. Che forse non era un’opera di letteratura alta, ma onesta sì.

Il lettore era attirato dalla copertina con una promessa di qualche ora trascorsa in compagnia di un tipaccio, delle sue pupe e dei cattivi del caso. Magari in un luogo lontano, assolato o gelido, ma distante, tanto da far galoppare la fantasia. L’essenza del Pulp. E quando ho cominciato a scrivere Segretissimo (Sopravvivere alla notte, [n. 1204] 1992) avevo assorbito come lettore tutti questi concetti. Ho cercato di metterli in pratica scrivendo storie che, come lettore di Segretissimo, a me per primo dovevano piacere. Né più né meno. Facile, no?