Nome importante della nuova leva dei traduttori di Segretissimo, Alessio Lazzati ha tradotto autori come Jim DeFelice (Gli artigli del leopardo), Greig Beck (Ghiaccio nero), Ken McClure (Terrore invisibile), Aaron Cohen (Fratelli guerrieri). Ha tradotto la biografia di Mick Jagger (Jagger, di Mick Spitz).

Come autore, va segnalato il saggio Horrorock. La musica delle tenebre, scritto con Eduardo Vitolo e con prefazione di Alan D. Altieri (Arcana 2010).

                             

Quand’è che hai deciso di diventare un traduttore? E, se non l’hai deciso, come ti ci sei trovato in mezzo?

È stato un misto di volontà e di circostanze favorevoli. Prima di lavorare attivamente nell’editoria avevo già tradotto manuali e documenti tecnici quando lavoravo nel settore sicurezza. Poi sono approdato al settore editoriale, l’ambito in cui ho sempre voluto lavorare, come lettore e blogger (a volte come autore). Dopo aver ultimato la lettura/valutazione di un libro che mi era particolarmente piaciuto ho avanzato la candidatura a traduttore. Ho fatto una prova di traduzione con esito favorevole e da lì è cominciato il mio percorso.

                              

Secondo te è più faticoso tradurre un romanzo o scriverlo?

Non ho mai scritto un romanzo (solo saggistica e racconti), per cui in teoria non avrei gli elementi per rispondere. Proviamo a discuterne comunque.

La mia opinione è che sono due lavori totalmente diversi e con problematiche specifiche. Forse, e dico forse, non ce n’è realmente uno più faticoso.

Devo dirti che personalmente scrivere un brano di narrativa o saggistica in cui ho il controllo totale della materia può risultarmi più “leggero” che tradurre un passo particolarmente ostico in cui magari ho poco margine di manovra. Certo, quando ti capita un blocco... succede il contrario!

Quando traduci puoi essere creativo ma hai sempre un punto di partenza, quando scrivi può mancarti tutto. D’altro canto scrivere cose tue può darti più slancio e spesso riesci a tenere ritmi alti per tempi molto più lunghi. Secondo me ci sono parecchie variabili da considerare prima di poter dare una risposta alla tua domanda. Ammesso che sia possibile dare una risposta...

Un paio di precisazioni: al di là di quella che può essere a volte la percezione comune, tradurre è un lavoro vero e quindi ha aspetti specifici di “fatica”. Ovvio che non è la miniera... ma lo stesso si potrebbe dire di molti altri mestieri e professioni intellettuali. La fatica mentale, la necessità di mantenersi lucidi e non fare errori (o tentare di non commetterne) dopo ore di concentrazione, le tipiche problematiche posturali dei lavori da “ufficio” ecc. sono tutti elementi presenti: quindi quando uno vi dice che fa il traduttore, non domandate «Ah, bello... e di lavoro?»

                         

Se hai tradotto da più lingue, quale secondo te è più “confortevole” nel passaggio all’italiano?

Ho tradotto solo dall’inglese, nelle varianti australiana, scozzese, statunitense ecc.

                          

Ti è capitato di tradurre un autore che proprio non sopporti?

No, mi ritengo fortunato sotto questo aspetto.

                                  

Il testo che più ti ha fatto ammattire a tradurre? E quello che invece più ti ha divertito?

Ogni testo ha sempre presentato problematiche specifiche legate magari a parti tecniche. Come esempio ti cito Jagger, per Arcana, la biografia del leader dei Rolling Stones Mick Jagger; mi è piaciuto molto ma certi passaggi ricchi erano veramente tosti: spesso c’era slang proveniente da cinque decenni diversi e da diverse nazionalità, ecc. Non è semplice gestire la traduzione di dichiarazioni di Truman Capote, Paul McCartney, James Brown e Vernon Reid dei Living Color, solo per citarne alcuni!

Per quel che riguarda l’aspetto divertimento, è una sensazione che di solito provi quando hai finito il lavoro e ti guardi alle spalle.

                              

C’è stato qualche romanzo (o saggio) che, traducendolo, hai avuto una gran voglia di aver scritto tu?

Certo. In generale tradurre biografie (ne ho tradotte tre, Jagger, Mustaine e Fratelli guerrieri) mi ha sempre fatto venire voglia di scriverne una. Sia con che senza la partecipazione attiva del soggetto.

                                     

Ti è mai capitato di aver voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto? Secondo te un bravo traduttore aggiusta o lascia così com’è?

Passaggi “mal scritti” non molti, a volte traducendo hai già la possibilità di sbrogliare punti intricati o contorti senza dover strafare.

Succede di dover aggiustare: il passaggio da una lingua all’altra non è immediato e capita di dover sistemare certe cose. Poi dipende da cosa si intende per aggiustamenti: aggiungere o togliere direi di no.

Mi è capitato per esempio di dover lavorare con vincoli di spazio, asciugando il testo. Non si tratta di tagliare, ma di ricorrere a costruzioni equivalenti... più snelle!

Cerco sempre di mantenere lo stile originale dell’autore, ma l’inglese e l’italiano sono due lingue molto diverse, qualche aggiustamento lo ritengo inevitabile. Nelle interviste dei miei colleghi sono già saltati fuori alcuni dei problemi tipici: in certi romanzi sembra che i personaggi non possano trattenersi dal fare spallucce in continuazione. Il “disse” in fondo a una battuta di dialogo è ripetuto tale e quale centinaia di volte in un romanzo (traducendo si tende a usare un sinonimo o perché no, di rado, anche  a ometterlo se la battuta lo permette). Alcuni autori a volte esagerano un po’ con le ripetizioni dello stesso termine e non sempre per creare un effetto tramite la sua ripetizione...

                                    

La traduzione cine-televisiva ha dei limiti (tempistica, ritmo, labiale degli attori, ecc.): c’è un corrispettivo di questi limiti in quella cartacea (come per esempio il numero di pagine del libro finito)? E se sì, quanto possono influire questi limiti sul lavoro di traduzione?

Come dicevo nella risposta precedente. mi sono trovato a lavorare con dei limiti di spazio, mai strettissimi o “matematici” ma con la direttiva di “asciugare” il testo. Lavoro complicato e se si vuole ingrato e difficile. Spesso però per proporre un testo in determinate collane non c’è altro da fare e allora cerchi di farlo al meglio.

Altra cosa da tenere in considerazione sono il ritmo e i “cambi di scena” e prospettiva, una scansione a livello di struttura che tento sempre di salvaguardare in fase di traduzione.

                                   

Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui vai più fiero di aver curato la traduzione?

Una menzione speciale la merita il primo: Fratelli guerrieri, intensa biografia di Aaron Cohen, un giovane ebreo americano, un ragazzo difficile di famiglia ricca, che si arruola nelle forze speciali israeliane (e non in un corpo qualunque ma nel Sayeret Duvdevan... missioni lampo sotto copertura). Citerei anche Gli artigli del leopardo di Jim deFelice, un romanzo un po’ particolare uscito per Segretissimo e che forse è sfuggito a molti ma che a mio gusto personale meritava. Cuore di Tenebra + La Divina Commedia ambientati in Afghanistan durante la “Guerra al Terrore”? Che volete di più!

In generale però sono fiero di tutti i lavori che ho potuto fare finora, compreso naturalmente quello che uscirà forse l’anno prossimo e che per ora non vi rivelo. Orgoglioso e grato di aver avuto la possibilità di tradurli. Spero di continuare a cimentarmi in questo lavoro e di migliorare sempre di più un passo alla volta.