Questa settimana incontriamo una traduttrice dal curriculum sorprendente e davvero invidiabile. È impossibile riportarlo per intero in queste poche righe, quindi ci limiteremo a segnalare che ha tradotto autori come Francisco Umbral (Rosa e mortale), María Zambrano (Persona e democrazia, Il sogno creatore), Octavio Paz (Chuang-Tzu: vita dell’uomo che diventò perfetto), subcomandante Marcos (Racconti per una solitudine insonne), Juan Antonio Ramirez (La metafora dell’alveare nell’architettura e nell’arte), Pedro Mairal (Una noche con Sabrina Love), Juan Luis Arsuaga (A cena dai Neanderthal), Alejandro Jodorowsky (Il dito e la luna, Il passo dell’oca), Cristobal Jodorowsky (Il collare della tigre).

Ha curato recentemente il pamphlet bibliofilo Toccare i libri di Jesús Marchamalo (Ponte alle Grazie).

                     

Quand’è che hai deciso di diventare una traduttrice? E, se non l’hai deciso, come ti ci sei trovata in mezzo?

La mia vocazione per la traduzione è nata, in realtà, sin dai tempi del liceo. Potrà sembrare strano, ma tutto sommato non odiavo le tremende versioni di latino e greco. Quando mi sono laureata in lingue il mio relatore, Gabriele Morelli, mi ha proposto la prima traduzione “vera”, un romanzo difficilissimo di Francisco Umbral. Dopo questo battesimo, ho avuto occasione di fare uno stage come redattrice alla Bruno Mondadori, e lì, oltre alle normali attività redazionali, il direttore editoriale Francesco Cataluccio mi ha dato l’opportunità di cimentarmi come traduttrice e ho capito subito che era ciò che avrei voluto fare da grande. Ho avuto, insomma, l’immediata percezione che quello sarebbe diventato il mio mestiere.

                       

Secondo te è più faticoso tradurre un romanzo o scriverlo?

Credo che tra il narratore e il traduttore ci sia la stessa differenza che c’è tra il pittore e il restauratore. Il traduttore ha il compito di entrare nell’anima dell’autore del romanzo, di interpretare e ricostruire – a volte – i pensieri e le intenzioni non evidenti. Manca, però, tutta la parte di ideazione, di creazione della storia. Per questo, alla fine, ritengo che sia senz’altro più faticoso scrivere, ma allo stesso tempo tradurre può essere molto creativo e dare altrettanta soddisfazione.

                               

Se hai tradotto da più lingue, quale secondo te è più “confortevole” nel passaggio all’italiano?

Io traduco dallo spagnolo e dall’inglese. Lo spagnolo ha una componente stilistica molto vicina alla nostra lingua, anche se spesso la struttura della frase è più contorta e va snellita nella resa in italiano. Invece l’inglese, con le sue frasi brevi dal ritmo sincopato, comporta un lavoro di maggiore adattamento linguistico per il lettore italiano.

                             

Ti è capitato di tradurre un autore che proprio non sopporti?

Anche se a volte mi capita di avere una normale prevenzione nei confronti di alcuni generi e di alcuni autori, il lavoro di traduzione aiuta molto a creare un rapporto quasi amichevole con l’autore, un contatto che non sconfina mai nel negativo, altrimenti sarebbe impossibile svolgere un buon lavoro. Posso invece dire che l’autore più faticoso con il quale mi sono trovata a confrontarmi è senz’altro la filosofa María Zambrano. Una fatica dovuta alla grande complessità di un pensiero davvero difficile da interpretare.

                     

Il testo che più ti ha fatto ammattire a tradurre? E quello che invece più ti ha divertito?

Riagganciandomi alla risposta precedente, i libri di María Zambrano sono stati senz’altro quelli più difficili da tradurre. Ho invece trovato non divertenti, ma sicuramente molto intriganti da tradurre i testi di Jodorowsky, padre e figlio. Le loro teorie sono talmente affascinanti che anche nel tradurle si entra in una dimensione quasi “magica”. Il coinvolgimento è tale che lo sciamanesimo non sembra più così distante dalla nostra vita quotidiana, sempre all’insegna della razionalità.

                     

C’è stato qualche romanzo (o saggio) che, traducendolo, hai avuto una gran voglia di aver scritto tu?

Ho appena terminato di tradurre un bellissimo libro di Care Santos ambientato a Barcellona, Il colore della memoria, prossimamente in uscita per Salani. Devo dire che è sicuramente uno dei più bei testi che io abbia tradotto, sia per la storia, in bilico tra il noir e il romanzo ottocentesco, sia per la grande varietà di stili e di fonti che l’autrice utilizza per tenere sempre acceso l’interesse del lettore.

                

Ti è mai capitato di aver voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto? Secondo te un bravo traduttore aggiusta o lascia così com’è?

Il mio modo di interpretare il mestiere di traduttore privilegia il pensiero dell’autore, il suo stile e la musicalità della lingua, senz’altro più facile in caso di testi spagnoli. Un traduttore, a mio parere, deve modificare il meno possibile: ha il compito, invece, di ricostruire e di far rivivere al meglio un’opera e la sua essenza originale in un’altra lingua. Detto questo, in alcuni casi è lo stesso editore che, quando commissiona un certo lavoro, può chiedere di “asciugare” il testo o di rivedere in modo più sostanziale le scelte stilistiche di un certo autore.

                    

La traduzione cine-televisiva ha dei limiti (tempistica, ritmo, labiale degli attori, ecc.): c’è un corrispettivo di questi limiti in quella cartacea (come per esempio il numero di pagine del libro finito)? E se sì, quanto possono influire questi limiti sul lavoro di traduzione?

Normalmente, i limiti cartacei non sono un problema. Piuttosto, un’analogia molto forte che ho riscontrato fra la traduzione cine-televisiva e quella letteraria riguarda senz’altro il lavoro sui giochi di parole, sui modi di dire, sui proverbi. Tutte cose, a volte, tipiche di una lingua o di una cultura che possono non avere un corrispettivo analogo in un’altra lingua. Trovare il modo di rendere omogenei questi elementi è spesso una sfida difficile, ma interessante e gratificante perché permette di andare un po’ più in profondità nell’adattamento di un testo destinato ai lettori italiani.

                       

Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui vai più fiera di aver curato la traduzione?

Posso senz’altro dire di andare fiera di tutti i libri che ho avuto occasione di tradurre. Essendo ospite della rivista Thriller Magazine, ne approfitto per citare due storie ad alta tensione che ho trovato appassionanti anche durante il lavoro di traduzione: L’esca di José Carlos Somoza e La contessa nera di Rebecca Johns.