Scrittrice e poetessa, Sacha Rosel ha tradotto fra l’altro Morte sull’isola di Stuart Woods e Hard Freeze. Un caso glaciale (Il Giallo Mondadori n. 2922), romanzo hard boiled di Dan Simmons, nonché la trilogia di WarCraft (Il pozzo dell’eternità, L’anima dei demoni e L’abisso) di Richard A. Knaak. È ancora in edicola il romanzo Il virus dell’odio (Urania n. 1575) di David Moody, fra le sue traduzioni la più recente ad essere pubblicata.

Nel 2011 per Demian ha curato l’antologia L’oscura malinconia dei sensi.

Quand’è che hai deciso di diventare una traduttrice? E, se non l'hai deciso, come ti ci sei trovata in mezzo?

Credo di aver sempre desiderato in cuor mio di tradurre libri, ma la molla che ha fatto scattare tutto è stata semplicemente questa: nel 2004 ho perso improvvisamente il lavoro di libraia che facevo da cinque anni e industriandomi a cercarne un altro ho tentato anche la strada della traduzione ed è andata bene.

Secondo te è più faticoso tradurre un romanzo o scriverlo?

Sono due processi completamente diversi, almeno per me. Scrivere è estremamente faticoso, se sei come me una persona rigorosa comporta il sezionare le emozioni dei personaggi e immergersi dentro di loro, il loro modo di pensare, di camminare, di respirare e soprattutto, è cercare di tirar fuori da quella che è la loro vita la storia che hanno intenzione di raccontarti e di permetterti di riportare sulla pagina, rendendola viva anche per chi non conosce il loro universo. Tradurre è più un negoziare con la lingua di qualcun altro, e per lingua non intendo tanto l’idioma diverso dal tuo in cui il libro è scritto, ma un modo di pensare, un odore e un sapore con cui non necessariamente ameresti convivere nella vita di tutti i giorni.

Se hai tradotto da più lingue, quale secondo te è più “confortevole” nel passaggio all'italiano?

L'Urania tradotto dalla Rosel e ancora in edicola
L'Urania tradotto dalla Rosel e ancora in edicola
Finora ho tradotto solo dall’inglese, anche perché nelle altre lingue che conosco (francese, spagnolo, in parte anche cinese) non mi sento particolarmente abile nel rendere sfumature che solo un amore di vecchia data e costante pratica come quello che ho con l’inglese è capace di dare.

Ti è capitato di tradurre un autore che proprio non sopporti?

Non voglio rischiare incidenti diplomatici, tanto più che ormai con Google Translator qualunque autore anglosassone può venire su ThrillerMagazine e tradursi in un inglese rudimentale quello che ci stiamo dicendo. Diciamo che in generale mi piacerebbe tradurre romanzi mainstream, cosa che non mi è ancora capitata, piuttosto che romanzi di genere, che al di là della trama spesso non mi lasciano grandi ricordi. Comunque, mi è capitato di tradurre libri dalle trame o da linguaggio un po’ discutibili.

Il testo che più ti ha fatto ammattire a tradurre? E quello che invece più ti ha divertito?

Se parliamo di divertimento, la trilogia di WarCraft di Richard Knaak è sicuramente il testo che mi ha più divertito. Ammattire... direi nessuno. Ogni tanto però mi è scappata qualche imprecazione.

C’è stato qualche romanzo (o saggio) che, traducendolo, hai avuto una gran voglia di aver scritto tu?

Dope (Una del giro) di Sara Gran: mi è piaciuto molto.

Hai tradotto tanto l’hard boiled quanto la fantascienza, passando per il fantasy: al di là dei gusti di lettura, c’è un genere che preferisci a livello di traduzione?

Non ho preferenze riguardo i generi letterari, però mi piacerebbe tradurre cose con cui non mi sono ancora cimentata, come sillogi di poesie, romanzi sperimentali o romanzi di formazione in stile ottocentesco.

Ti è mai capitato di aver voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto? Secondo te un bravo traduttore aggiusta o lascia così com’è?

Be’, la voglia di “aggiustare” credo venga un po’ a tutti, ma chi è così presuntuoso da pensare di saper cambiare al meglio quello che un’autrice o un autore hanno concepito diversamente? Diciamo che più che aggiustare, alle volte si tratta di rendere nella tua lingua (e nel caso dell’italiano parliamo di una lingua particolarmente legata a sonorità poeticizzanti, anche in senso deleterio) frasi che in inglese sono efficaci ma che in italiano risulterebbero banali. È anche vero che certe volte ci si imbatte in periodi scritti veramente in modo discutibile ma, ripeto, se si tratta di scrittori che in un modo o nell’altro hanno trovato un agente e per di più un produttore che ha già acquistato i diritti cinematografici del libro che tu stai traducendo, potrai anche pensare che scriva come un cane, ma evidentemente gli editor e gli addetti al marketing non la pensano così.

Chiariamo poi una cosa: la narrativa anglosassone è fin dalla sua nascita più attenta al dipanarsi della trama, cosa che io tendenzialmente aborro come scrittrice, rispetto allo stile o all’equazione stile=essenza del contenuto, che è invece una cosa più vicina all’area delle lingue romanze, soprattutto la narrativa francese ma anche quella italiana. La mania (esatto, io la definisco proprio così) per il giallo che è ormai dilagata in Italia da vent’anni a questa parte ha un po’ snaturato questa distinzione, secondo me abbassando di molto la qualità dei romanzi e cancellando potenzialmente la differenza con il mondo anglosassone. Con l’unica, sostanziale differenza che qui si scrive (e si traduce) in una lingua minoritaria, mentre gli anglosassoni possono esportare qualsiasi cosa fanno in tutto il mondo. Anche grezza (nel senso di materia prima) e scritta come uno copione cinematografico, non come un vero romanzo.

La traduzione cine-televisiva ha dei limiti (tempistica, ritmo, labiale degli attori, ecc.): c’è un corrispettivo di questi limiti in quella cartacea (come per esempio il numero di pagine del libro finito)? E se sì, quanto possono influire questi limiti sul lavoro di traduzione?

Non credo che ci siano limiti analoghi nel mondo del libro, o almeno a me non è mai capitato che dicessero: taglia qua e là o rendi questa frase in questo modo come “marchio di fabbrica” costante di quel personaggio. Di solito, nella mia esperienza almeno, queste sono cose di cui si occupa il revisore di traduzione, che a lavoro finito può decidere di cambiare parte di quello che tu hai fatto, come ad esempio il titolo finale da dare all’edizione italiana: è l’editor che lo decide; il traduttore fa solo delle proposte. A me è sempre capitato che mi chiedessero cinque-sei ipotesi di titolo, ma raramente quello prescelto era nella mia lista, perché lì entra in gioco il marketing, credo, o il richiamo con altri titoli che hanno già catturato i lettori, cosa che solo un editor può decidere.

Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui vai più fiera di aver curato la traduzione?

Tutti. Per me tradurre è come fare il pane o covare un uovo: alla fine, dopo aver tenuto al caldo quest’impasto o questa creatura piccola piccola, la puoi vedere emergere dal guscio dei segni grezzi originari che hai appuntato sul foglio fino a diventare una solida pagnotta, un pulcino rotondo in grado di parlare distintamente senza più timore. Per cui tutti ti sono cari, in un modo o nell’altro, nonostante le imprecazioni.