Questa settimana è la volta di una traduttrice senza confini: Emanuela Cervini ha infatto tradotto autori tedeschi, giapponesi, americani e tanti altri.

Da Olen Steinhauer (Il turista, Exit) a Frank Schätzing (Il diavolo nella cattedrale); da Kōji Suzuki (Dark water) a Esmahan Aykol (Hotel Bosforo, Appartamento a Istanbul); da Robyn Young (Anima templi) a Taichi Yamada (Una voce lontana); da James Patterson (Maximum Ride: l’esperimento Angel) a Katharina Hagena (Il sapore dei semi di mela).

Ha partecipato alla traduzione corale del corposo saggio Big Bang di Simon Singh, ma fra le sue traduzioni più note c’è quella del romanzo Biancaneve deve morire di Nele Neuhaus (Giano Editore) e fra le più recenti Allmen e le libellule di Martin Suter (Sellerio Editore).

          

Quand’è che hai deciso di diventare una traduttrice? E, se non l’hai deciso, come ti ci sei trovata in mezzo?

In effetti non è stata una scelta del tutto consapevole. Alle superiori ho studiato due lingue per cinque anni; alla fine, dopo l’esame di maturità, sapevo solo di voler continuare su questa strada, non avevo le idee molto chiare riguardo al mio futuro. Mi sono iscritta a Lingue e letterature straniere, ma ho capito subito – e con subito intendo proprio subito, mi sono bastati dieci giorni – che non faceva per me. Troppa teoria. E così, cercando un’alternativa, sono approdata all’istituto superiore per interpreti e traduttori, dove mi sono appassionata fin dall’inizio alla traduzione. Dopo due anni a Varese ho deciso di cambiare istituto e di proseguire gli studi a Milano per ottenere la specializzazione che volevo. Non me ne sono mai pentita perché nel capoluogo ho avuto la possibilità di lavorare con professionisti davvero in gamba che mi hanno insegnato tanto. Professionisti che ora ho la fortuna di poter chiamare “colleghi”.

Secondo te è più faticoso tradurre un romanzo o scriverlo?

Purtroppo non posso fare un confronto basandomi sull’esperienza, non ho mai scritto né un romanzo né un racconto e probabilmente non lo farò mai. Direi che ci vogliono abilità diverse. Ma complementari. Una cosa non esclude l’altra, conosco persone che scrivono e traducono molto bene. Per quanto mi riguarda, non sarei in grado di inventare una storia, dei personaggi, dei dialoghi... Preferisco concentrarmi sulle parole altrui.

                    

Se hai tradotto da più lingue, quale secondo te è più “confortevole” nel passaggio all’italiano?

Il passaggio non è mai facile, ogni lingua pone le sue difficoltà. Se la lingua di partenza è simile all’italiano, bisogna stare attenti a non farsi fuorviare da questa somiglianza; se è molto diversa, bisogna staccarsi senza paura dall’originale. E poi non dimentichiamo che dietro ogni idioma ci sono una storia, una cultura e delle abitudini differenti dalle nostre. Anche il più semplice riferimento alla quotidianità – un piatto, un programma televisivo, una barzelletta – può diventare un piccolo (o grande) ostacolo. Io traduco sia dall’inglese che dal tedesco, ultimamente più da questa seconda lingua. Le amo entrambe e non ho una vera e propria preferenza, ma forse, a pensarci bene, mi riesce un po’ più facile tradurre dal tedesco. È una lingua molto precisa, il che favorisce la comprensione del testo originale.

                            

Ti è capitato di tradurre un autore che proprio non sopporti?

Un autore insopportabile no. Mi è capitato di tradurre opere che non mi erano proprio congeniali, testi un po’ troppo prolissi e ripetitivi... Insomma, libri che per svago non avrei preso in considerazione. Ma sono già fortunata a fare un lavoro che mi piace, non posso anche pretendere di tradurre solo testi bellissimi che soddisfano appieno i miei gusti. In ogni caso tengo a fare le cose perbene, ci metto sempre il massimo impegno per consegnare il miglior risultato possibile.

                           

Il testo che più ti ha fatto ammattire a tradurre? E quello che invece più ti ha divertito?

Per la categoria “ammattimento” ne cito tre: una raccolta di racconti che mi è arrivata sotto forma di testo nippo-inglese – sicuramente una traduzione “di servizio” dell’originale giapponese – e che mi ha fatto sudare le classiche sette camicie per un buon risultato in italiano; poi Il diavolo nella cattedrale di Frank Schätzing, ambientato nella Colonia del 1260, con continui riferimenti a cose, strade, mestieri, realtà che non esistono più; e infine i romanzi di spionaggio di Olen Steinhauer, dove ci sono moltissimi particolari da controllare (date, fatti, descrizioni, percorsi ecc.) e dove compaiono parole o intere frasi in altre lingue, anche queste da verificare (solo nel Turista: albanese, arabo, cinese, francese, giapponese, russo, serbo-croato e sloveno). Le traduzioni che più mi divertono, invece, sono quelle della serie di Kati Hirschel, la libraria-detective inventata da Esmahan Aykol. Sono libri pieni di ironia e spesso, mentre traduco, mi scappa un sorriso per le battute, i ragionamenti e le (dis)avventure della protagonista.

                     

C’è stato qualche romanzo (o saggio) che, traducendolo, hai avuto una gran voglia di aver scritto tu?

A dire il vero, no. Non ho velleità da scrittrice. A volte però mi capita di leggere frasi o espressioni che mi colpiscono perché particolarmente belle o efficaci. Allora mi impegno al massimo per renderle come meritano in italiano.

                       

Ti è mai capitato di aver voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto? Secondo te un bravo traduttore aggiusta o lascia così com’è?

Parliamoci chiaro: se certe cose non le aggiusta il traduttore, ci pensa poi il revisore. Nel caso del testo nippo-inglese di cui ho già parlato, per esempio, è stato necessario limare, tagliare e fare altri interventi che normalmente non si fanno. Tutto dipende dalla qualità del testo di partenza e dal pubblico cui è destinata la traduzione. A volte sono le stesse case editrici a richiedere interventi particolari. Per fare un altro esempio, capita che in certi libri per adolescenti vengano attenuate le parolacce o tagliate le scene di sesso più forti (con la scusa che noi abbiamo una sensibilità diversa rispetto ad altri paesi). Sono scelte che si possono condividere o meno, comunque spesso, per “limitare i danni”, il traduttore interviene direttamente cercando di adattare senza stravolgere.

                         

La traduzione cine-televisiva ha dei limiti (tempistica, ritmo, labiale degli attori, ecc.): c’è un corrispettivo di questi limiti in quella cartacea (come per esempio il numero di pagine del libro finito)? E se sì, quanto possono influire questi limiti sul lavoro di traduzione?

A me non hanno mai posto alcun limite in questo senso, ma ho sentito dire che in certi casi (isolati) il traduttore deve effettuare dei tagli, su richiesta della casa editrice, per non superare un determinato numero di pagine. Parlo della narrativa di grande consumo. Ora che ci ripenso, anche a me è capitato qualcosa di simile: si trattava di una guida turistica già impaginata, con il testo originale da sovrascrivere in italiano. Ovviamente lo spazio a disposizione era quello che era. Non è stato facile, anche perché l’italiano tende a essere più lungo del tedesco. Ma non ho fatto tagli, mi sono solo sforzata di tradurre in modo sintetico, per esempio scegliendo i sinonimi più brevi.

                          

Tu hai tradotto tanto narrativa quanto saggistica: quale pensi sia la più impegnativa a livello di traduzione? E quale preferisci fra le due?

In effetti ho iniziato traducendo saggistica, in particolare opere di divulgazione scientifica. Poi sono arrivati i primi romanzi e ho imboccato la strada della narrativa, che percorro tuttora. La divulgazione scientifica mi ha appassionato fin da quando l’ho incontrata all’istituto per traduttori e interpreti, forse anche per merito di una docente bravissima e molto coinvolgente. Era quello che volevo fare, per questo al momento della specializzazione ho scelto il ramo tecnico-scientifico. Poi, con l’esperienza, ho scoperto di avere anche la sensibilità e l’orecchio per la narrativa, e devo dire che ora preferisco quest’ultima. La divulgazione scientifica continua a piacermi, ma la narrativa permette di immedesimarsi nei personaggi e di vivere le loro storie. Quando lavoro il mio corpo sta seduto su una sedia davanti al computer, ma la mia mente viaggia nel tempo e nello spazio. Non riesco a tradurre senza immedesimarmi.

Per quanto riguarda le difficoltà, ogni genere ha le sue. Per la saggistica bisogna documentarsi, fare molte ricerche, usare la giusta terminologia, soprattutto quando si parla di argomenti scientifici. Alcune di queste cose valgono anche per la narrativa, che in più richiede orecchio per i dialoghi e il ritmo generale, sensibilità per le sfumature... Se poi vogliamo complicarci la vita, ci sono anche i generi “misti”. Io poi mi occupo anche di traduzioni non editoriali e spesso ho a che fare con testi di argomento ambientale.

         

Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui vai più fiera di aver curato la traduzione?

Di recente è stata una bella soddisfazione tradurre Martin Suter, l’autore svizzero vivente più letto nel mondo. Poi sono particolarmente affezionata a Nele Neuhaus e alla sua Biancaneve, che tra l’altro è stata recensita in modo molto positivo per ThrillerMagazine. Sono in contatto diretto con l’autrice, che durante la traduzione è stata molto gentile e disponibile nel rispondere alle mie domande. Ho anche avuto il piacere di incontrarla quando lo scorso giugno è venuta in Italia per presentare il romanzo. Infine non posso non nominare (di nuovo) la Aykol e Steinhauer, la prima perché mi ha regalato leggerezza e divertimento, che credo di aver trasferito nella traduzione italiana dei suoi libri, e il secondo perché è un ottimo autore di crime fiction – non a caso ha appena vinto il premio Hammett – e con Milo Weaver ha creato un personaggio diverso dal solito agente della CIA.