Elisa si era svegliata nella stessa posizione in cui aveva chiuso gli occhi. Libro aperto scivolato sulle gambe, cuscino appallottolato dietro la schiena. Aveva dormito scomoda come fosse stata in treno, e invece era a casa, nel suo letto. Ma faticava a prendere sonno. Non era riuscita a capire per quale motivo, da un po’ di tempo a questa parte, appena si sdraiava si sentiva perfettamente lucida e sveglia. In realtà non le capitava proprio ogni notte, ma quando la sua coinquilina Stella portava a casa qualche uomo, sempre. E con alcuni peggio che con altri. L’ultimo, per esempio, la disturbava parecchio. Giulio. Non molto alto, capelli scuri e occhi intensi. Profumo speziato, un sorriso pulito. Si levava anche le scarpe rispettoso delle loro abitudini orientali. Niente poteva far pensare che non fosse un bravo ragazzo, anzi. Eppure, quando Elisa li sapeva in stanza insieme, non dormiva. Tendeva l’orecchio, cercava di intuire le loro parole, cosa stessero facendo. Quella appena trascorsa era stata una di quelle notti. Anche se lui era andato via prima del solito Elisa non si era addormentata se non poche ore prima di quel risveglio contratto.

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Elisa si alzò dal letto, sentiva un po’ di freddo, stava arrivando l’autunno e finalmente al mattino l’aria che entrava dalla finestra – lasciata aperta tutte le notti – era leggera. Quello sarebbe stato il primo inverno nel loro nuovo appartamento, visto che Elisa e Stella si erano trasferite in primavera. Era la loro terza casa condivisa. La prima subito dopo il liceo, poi un trasloco triste. E infine questa che loro chiamavano “la casa della vita”, come se fossero una coppia.

Mentre Elisa si annodava in vita la cintura del kimono da casa che le aveva regalato Stella si chiese come avrebbero fatto, in inverno, con quella finestra. Doveva rimanere aperta per Miyako, la gatta di Stella, che amava gironzolare nella notte. E su quella gatta, come per molte altre cose, Stella non era disposta a compromessi.

Elisa accostò i vetri sospirando e si diresse in cucina per preparare la colazione a entrambe: tè verde, fette biscottate con la marmellata e un frutto. Era sempre lei a occuparsene perché a Stella piaceva dormire fino a tardi il sabato. Anzi, le piaceva fare colazione a letto, scambiare qualche chiacchiera con Elisa, che se ne stava seduta in poltrona, e poi girarsi dall’altra parte e scivolare nel sonno.

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Quel kimono era davvero scomodo, le maniche si impigliavano ovunque ed Elisa le aveva già intinte un paio di volte nell’umido del lavandino.

Ma l’oriente era la passione di Stella, il suo universo. Tanto che aveva sempre popolato le loro case di oggetti, simboli, odori giapponesi. Anche se in quel paese non era mai stata.

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Il bollitore fischiava, pronto per il tè. Miyako si espresse in uno dei suoi miagolii prepotenti, di quelli che facevano correre Stella a darle da mangiare. Ma con Elisa la vita era più dura. La gatta le si strusciò sulle gambe nude, ma insieme al pelo soffice la ragazza sentì qualcosa di freddo e vischioso. Abbassò lo sguardo: la sua pelle era striata di rosso.

Probabilmente la gatta si era ferita in uno dei suoi giri notturni. Ma lei ora non aveva certo voglia di occuparsene, così, stizzita, la prese in braccio e si diresse verso la stanza di Stella, per avvisarla dell’accaduto. Non sarebbe stato il risveglio perfetto ma sapeva quanto Miyako fosse importante per lei.

La porta era socchiusa, così la spinse con un piede.

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Elisa, davanti al corpo di Stella, buttato lì come un vestito sporco, lasciò cadere la gatta, che si avvicinò al viso della padrona per leccare piano il sangue che si stava rapprendendo accanto alle sue labbra.

Elisa inghiottì un grido e si scagliò fuori dalla stanza. Aprì la porta di casa e scese a perdifiato le scale. Subito fu in strada, attraversò senza neanche guardare, correndo verso il parco. Ma dove stava andando esattamente? Mentre ansimava tra gli alberi con il kimono svolazzante e i piedi scalzi inciampò in un cane color miele che placido annusava il terreno.

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In effetti era tipico di Miranda tirarmi giù dal letto alle prime luci del mattino pretendendo non solo che io risolvessi ogni problema con la consueta efficienza, ma perfino aspettandosi da me la massima lucidità possibile: cosa che al momento, senza almeno un paio di dosi di caffè nero bollente, non ero assolutamente in grado di assicurare. Come cercai di dirle, farfugliando, mentre mi dirigevo in bagno schivando lo stipite di poco meno di un millimetro.