Arthur Bishop è il “meccanico” un sicario che compie il suo lavoro in modo pulito, senza lasciare traccia, possibilmente facendo credere a tutti che si tratti di un incidente. Lavora esclusivamente al soldo di un'organizzazione internazionale, che ha regole molto rigide: i membri che stanno diventando meno affidabili vengono assassinati prima che possano mettere a repentaglio le sorti dell’organizzazione. Bishop conduce una vita ritirata, è un tipo sofisticato, ascolta musica classica ed è un collezionista d’arte e di auto d’epoca. Tuttavia, a causa della pericolosità della sua professione Bishop è costretto a vivere in un isolamento dorato evitando di socializzare con il prossimo e non mettendo mai in gioco le proprie emozioni (l’unico contatto umano è con una prostituta di New Orleans, la bellissima modella Mini Anden, davvero troppo bella per essere “del mestiere”…). Il primo snodo narrativo è quando a Bishop viene assegnata dalla sua organizzazione l’uccisione del suo capo e mentore, "Big Harry" McKenna. Bishop è riluttante, ma porta a termine la missione parricida, sapendo che comunque il destino dell’amico è stato già deciso, volente o nolente. Al funerale Bishop incontra lo spietato e ambizioso figlio di McKenna, Steve. Questi è incuriosito da Bishop e cerca di convincerlo a prenderlo con sè. Bishop si rende conto che Steve ha le potenzialità per diventare un killer come lui. Questo è il secondo snodo narrativo. Steve diventa apprendista di Bishop e cerca di imparare da lui la difficile arte di uccidere. A seguito di un assassinio condotto in modo maldestro, l'organizzazione mette in guardia Bishop sulla sua scelta.

Da questo punto in poi ci fermiamo per non fare spoiling.

Ma vediamo ora le differenze tra The mechanic originale e il remake, supponendo che se a qualcuno è venuto in mente di rifare il film in chiave più moderna, abbia preso spunto dal precedente e perché no abbia provato a renderlo migliore.

Nel film del 1972 diretto da Michael Winner (regista de Il giustiziere della notte) Arthur Bishop è Charles Bronson mentre Steve McKenna è Jan-Michael Vincent.

Nel film diretto da Simon West invece Arthur Bishop è Jason Statham e Steve McKenna tal Ben Foster.

Da una parte, il carisma della faccia di pietra più poetica del cinema, gli occhi di quello che da lì a poco diventerà il giustiziere della notte, dall’altra la fisicità marziale di un attore pure-action.

Un confronto piuttosto impari, a dire il vero.

Bronson è perfetto nel ruolo, impassibile con tracce di umanità che affiorano all’improvviso, fiori in un deserto di disciplina e rigore all’eccesso. La sua recitazione minimale lo fa fondere in tutt’uno col personaggio. Dimenticare l’attore e partecipare con il personaggio alle vicende della storia è dimostrazione di un’interpretazione indovinata.

Per Statham, il discorso è diverso. Lo si immagina sempre in completo scuro e camicia bianca, lo si riconduce sempre al Trasportatore. Ma a sua scusante, c’è l’immancabile confronto che diventa quasi inevitabile quando si recita in un remake. La sua interpretazione leggermente più misurata rispetto al solito cliché, inficia la sua principale caratteristica, quella di una recitazione sopra le righe, in bilico tra il grottesco e una comicità coreografica alla Jackie Chan made in hollywood.

Quel che è certo, è che ci troviamo di fronte a due generazioni di attori, quindi anche l’età dello spettatore ha una sua valenza nel far apprezzare l’uno o l’altro.

Non si può certo discutere sul co-protagonista, invece. Jan-Michael Vincent, il surfista di “Un mercoledì da leoni”, e il velleitario Ben Foster. Già partendo dal physique du rôle di cui il secondo difetta ampiamente e che lo rende per lo meno improbabile. Prova né sia un corpo a corpo con la sua prima vittima (l’attore Jeff Chase, ex giocatore di football professionista), un marcantonio di due metri, 25 centimetri e una cinquantina di kg di differenza, che l’ipo-muscolarizzato Foster riesce a eliminare come bevesse un bicchier d’acqua… Altra nota stonata la differenza d’età tra Statham e Foster che rende poco credibile il ritiro del primo, per lasciar spazio al secondo.

La visione del film però ci induce a far notare come una volta si faceva davvero cinema, con una meticolosa cura sull’immagine, cosa che ormai troppi registi forse per Horror Vacui hanno dimenticato, riempiendoci di parole. Nell’originale (e in parte nel remake) all’inizio del film non c’è un dialogo per oltre un quarto d’ora. E ciò non va a discapito della comprensione e della fluidità della trama, anzi.

Infine un curiosità: nella sceneggiatura originale di Lewis John Carlino, il rapporto tra Arthur Bishop e Steve McKenna era esplicitamente gay. Ma nel 1972 i produttori avevano difficoltà ad ottenere finanziamenti e attori pronti alla parte.

Carlino per questo motivo disse che il film fu una delle più grandi delusioni della sua vita. Il suo obbiettivo era approfondire i rapporti umani e la manipolazione sessuale nella vita di due sicari, incentrando tutto su una partita a scacchi tra l'assassino più vecchio e il suo giovane apprendista, tra sessualità, amore e desiderio di battere il maestro e prenderne il posto come numero uno.

Dal 1972 al 2011 non si sono evidentemente fatti passi in avanti in questo senso, perdendo forse un’occasione per evitare di fare un mero remake che non mette, ma forse toglie qualcosa all’originale.