Robert Ludlum (1929-2001) è stato forse uno dei più prolifici e amati scrittori di spionaggio del ventesimo secolo… e forse lo è anche nel ventunesimo, se consideriamo la decina di volumi scritti da abili professionisti (tra i quali Eric van Lustbader, Gayle Linds e Patrick Larkin) ma che recano il suo nome. Un marchio di fabbrica di un filone.

Un nome senza volto fu pubblicato nel 1981 e rappresenta forse il suo capolavoro. Ebbe, in quegli anni, anche una riduzione televisiva molto fedele con Richard Chamberlain e Jacklyn Smith. Si trattava in effetti di una delle spy-stories più intriganti e meglio riuscite dell’epoca e, a mio avviso, anche oggi rimane una pietra miliare. David Webb-Jason Bourne, l’assassino perfetto costruito dalla branca della CIA Treadstone-71 per affrontare Carlos Lo Sciacallo ha costituito fonte di ispirazione per altre decine di libri, fumetti, film. In particolare mi piace ricordare la filiazione diretta a opera di Ian Van Hamme che con XIII ne ha ripescato il concetto procedendo, poi per una sua strada di grandissimo successo tanto da arrivare ad avere una sua serie TV (interpretata da Val Kilmer e Caterina Murino). L’idea di base è semplice ma fortissima. L’uomo senza memoria che si scopre suo malgrado assassino. Una doppia (se non tripla) lotta contro il fantasma del killer che il nuovo Bourne non vuole essere, iServizi che non sanno se servirsene o ucciderlo, e Carlos, l’arcinemico. La stessa idea di rivisitare il mito del terrorista Carlos partendo dai dati di cronaca per farne un personaggio larger than life, a metà tra la realtà e i cattivi di James Bond, ramificata quanto improbabile organizzazione è geniale. In tal senso lo sceneggiato Identità Bruciata con Chamberlain è il più fedele al romanzo e, anche rivisto oggi, resta forse una delle migliori storie del filone realizzata per la TV. Lo stesso Ludlum, tentato più volte dal successo, non riuscì mai nei romanzi successivi a ricreare la perfetta miscela del primo. Doppio inganno e Il ritorno dello Sciacallo sono romanzi verbosi, complicati e non perfettamente chiari. Scritti, si direbbe, senza entusiasmo e imposti dal successo del primo. Con gli anni (e la cattura del vero Carlos) anche l’idea iniziale aveva perso forza. Ma il personaggio di Jason Bourne, killer senza memoria e umanissima “macchina “ per uccidere in rivolta contro i suoi stessi burattinai, è tornato al successo nel 2002. The Bourne Identity di Doug Liman ha riscritto le regole dello spionaggio cinematografico, lanciato presso il grande pubblico un nuovo eroe e rivitalizzato tutto il filone. Dei tre film finora realizzati con il personaggio (The Bourne Supremacy, 2004, e The Bourne Ultimatum, 2007) è quello che presenta maggiori analogie con il romanzo originale. Non solo, la storia è meglio equilibrata tra azione e indagine e le frenetiche sequenze girate con la macchina a mano, impronta d’autore di Paul Greengrass (autore dei successivi capitoli) non sono ancora presenti, a tutto vantaggio della scorrevolezza del racconto. Certo, rispetto al romanzo le variazioni sono molte, ma il trascorrere degli anni nella spy-story è particolarmente importante. Un nome senza volto raccontava la storia di un agente infiltrato che, per stanare lo Sciacallo (sicario internazionale solo vagamente ispirato al “vero” Sciacallo) creava un sicario fittizio per attirare il suo bersaglio allo scoperto. Nel corso di un’operazione finita male, Bourne veniva ferito e gettato in mare. Ripescato al largo di Marsiglia, si scopriva senza memoria. Unico indizio: un numero di conto cifrato in Svizzera inserito sotto pelle. Nell’adattamento del romanzo originale di degli sceneggiatori Gilroy ed Herron, sparisce lo Sciacallo e lo smemorato si ritrova al centro di una complessa trama di inganni e omicidi. Sicario programmato con il lavaggio del cervello, si è lasciato distrarre dal viso di una bimba e ha mancato il suo bersaglio, uno scomodo politico africano.

Nel tentativo di comprendere chi è, Bourne risale una labile traccia da Zurigo a Parigi, incontra una “ragazza selvaggia” di cui s’innamora e scopre di essere la pedina di un programma chiamato Treadstone. Ovviamente è una sezione segreta della CIA finalizzata all’omicidio politico. Concklin (che nei romanzi di Ludlum è il mentore di Bourne) qui diventa il suo peggior nemico. Cos’ha didiverso The Bourne Identity da moltissimi film del filone basati sul complotto? Prima di tutto una innovativa carica di violenza e un look delle scene d’azione decisamente più aggressivo della media. Le sequenze di lotta a corpo a corpo, le sparatorie e gliinseguimenti in auto sono altrettanto improbabili di quelli proposti da un film di James Bond, ma hanno un taglio più ruvido e violento. Agli occhi dello spettatore, probabilmente, più realistico. Azzarderei che il recente restiling dei film di 007 ne abbia risentito. Poi, per la prima volta, un film di spionaggio diventa un prodotto per il pubblico giovane che, negli anni, ha preferito diversi filoni relegando le storie di spie allo scaffale dedicato ai "vecchi”. Il merito è certamente di Matt Damon, francamente non credibilissimo nel primo episodio, ma certamente in grado di smuovere una fascia di spettatori più giovane di entrambi isessi. La presenza di Franka Potente e di Julia Stiles inserisce le immancabili figure femminili della spy-story, proponendone una versione più moderna e meno stereotipata della “fatalona” cui siamo abituati. In effetti tutto il film sembra una lotta tra giovani confusi, a volte violenti ma decisi a trovare la verità e un oscuro mondo di cospirazioni popolato da “adulti” cui Chris Cooper (Concklin) e Brian Cox (il suo capo Abbott, cattivo anche nel secondo episodio) danno un volto convincente. L’ambientazione praticamente tutta europea conferisce quel tocco esotico (per il mercato USA…) che ha sempre caratterizzato lo spionaggio classico.
Anche in questo caso Marsiglia, Parigi, Zurigo, la campagna francese fotografati d’inverno, lividi di giorno e baluginanti di luci arancioni di notte, creano un set che si discosta molto dal glamour dei modelli più noti. Banche, centrali operative stipate di monitor, alberghi di lusso non mancano ma non c’è compiacimento nel modo in cui sono ritratti. Bourne corre, lotta, sanguina all’interno di androni bui, indossa abiti consunti, si muove in un mondo che preme psicologicamente contro di lui, isolandolo. Non c’è necessità di gadget fantasiosi. I sofisticati sistemi di comunicazioni sul cui funzionamento la storia insiste in questo come nei successivi episodi, sono solo versioni leggermente più avanzate di quel materiale che anche noi possiamo acquistare in qualsiasi negozio. Una trovata particolarmente indovinata è l’inserimento degli “assett”, delle risorse umane dell’organizzazione Treadstone. Sono killer come Bourne, sottoposti ad addestramenti massacranti che possiamo solo immaginare, e a un lavaggio del cervello che li ha resi quasi delle macchine. Disponibili in ogni parte del mondo, si celano tra noi, ma basta un messaggio sul cellulare per scatenarne una ferocia quasi sovrumana. L’abilità in combattimento, il fascino della quasi invincibilità ha un prezzo. Per Bourne che si ritrova di colpo a combattere tra due personalità opposte ma anche per i suoi avversari. Memorabile è il confronto nelle campagne invernali chiazzate di neve sporca con il sicario venuto a eliminarlo. Questi ha il viso quasi sconosciuto, per i tempi, di Clive Owen. Forse la sequenza migliore di tutto il film è il loro duello a fucilate nei campi. Ferito a morte, Owen manifesta un’empatia ricambiata verso Bourne. Entrambi sono coscienti di essere macchine, ma strumenti umani usurati. Owen si lamenta di martellanti emicranie, dell’insofferenza alle luci. Che lo faccia in punto di morte con una scarica di pallettoni nel ventre e riesca a scambiare un sorriso con Bourne è una trovata che umanizza i personaggi.

Totalmente privi di morale e disumani sono invece i capi; sia Concklin che continuamente parla di ‘fare pulizia’ con totale sprezzo della vita umana, che il vecchio Abbott. Questi, vista la mala parata, fa eliminare lo stesso Concklin, cancella ogni prova dell’operazione Treadstonee, allo stesso tempo, presenta al Congresso un progetto con identiche finalità mascherandolo da programma di addestramento.

E la partita ricomincia.

Tanto da stimolare gli eredi di Ludlum, inparticolare il suo agente letterario Danny Baror non nuovo a questo genere di operazioni e ‘geniaccio‘ dell'editoria (ve lo dico perché lo conosco, un grande) a rinnovare la franchising del nome per una nuova serie di romanzi. Questi si pongono inizialmente in direttocollegamento con quelli originali e ignorano la storyline dei film. Qui viene la sorpresa. Autore con tanto di nome in copertina è Eric Lustbader, famosissimo per la serie Ninja che, a metà degli anni ’90 si concluse con un formidabile trittico di spionaggio, che ritorna dopo un periodo dedicato al fantasy a scrivere d’azione. Il Bourne dei suoi romanzi è però sin dal primo (L’eredità di Bourne del 2004) un personaggio differente, legato più al suo nuovo autore che al modello. I cinque romanzi sinora usciti di questa saga venduta in tutto il mondo si staccano sempre più dalle tematiche originali, ma tracciano una nuova strada del filone legata ai nostri tempi. Terrorismo islamico, mafia russa, ma anche complotti interni con derive tecnologiche azzardate forse non sempre riuscitissime (in particolare nell’ultimo La preda di Bourne, 2010). Sempre però un grande thriller fatto d’azione ma anche d’inganno, di sentimenti, di spostamenti per il mondo. Su tutto domina l’eterna domanda. Chi sono? È questo forse il succo della spy story oggi come ieri. Malgrado i capovolgimenti di fronte, le innovazioni tecnologiche, le virate della politica internazionale, il fascino principale di questo genere di vicende resta quello dell’uomo solo, braccato, posto continuamente di fronte alla scelta se fidarsi o meno di chi gli sta vicino. Questo è il motivo per cui credo che la spy-story come concetto, pur cambiando pelle, resterà sempre un genere amato dal pubblico.