Come la cinquantatreenne scrittrice norvegese Anne Holt sia riuscita ad affermarsi coi suoi gelidi (e non in senso meteorologico) noir in Italia merita una riflessione preliminare.

Siamo nel 1999 e la casa editrice Hobby & Work pubblica nell’eterodossa collana “Euronoir” Sete di giustizia, scritto nel 1994 e secondo di una serie dedicata a una poliziotta lesbica della Centrale di Polizia di Oslo, Hanne Wilhelmsen. A prescindere dall’inveterato malcostume italico di non presentare gli autori stranieri secondo l’ordine di uscita dei loro romanzi, l’iniziativa è talmente meritevole che – siamo pur sempre nell’Italia vittima delle mode letterarie e in quel momento va per la maggiore l’onda “catalana” – cade presto nell’oblio.

Passano nove, densissimi anni per il noir europeo in Italia (Mankell e la Marsilio hanno nel frattempo aperto la diga scandinava che riversa su di noi acque pure, meno pure e talvolta anche limacciose) e l’Einaudi ripropone la Holt: facendola passare astutamente per un’esordiente, pubblica il primo episodio di un’altra serie, iniziata solo nel 2001, dedicata stavolta a una coppia, Johanne Vik e Yngvar Stubø, problematica e tormentata, ma meno trasgressiva. Visto il successo si prosegue con altri due volumi e nel terzo, con un classico crossover, ecco apparire la nostra Hanne.

Il lettore rimane spiazzato: da un lato si è affezionato alle avventure del commissario e della criminologa e vorrebbe continuare a leggere di loro, ma non ci sono più romanzi disponibili per la traduzione (ne usciranno in Norvegia solo due tra il 2009 e il 2010); dall’altro si vede presentare – e in condizioni fisiche tutt’altro che brillanti, condannata com’è su una sedia a rotelle – una detective di cui intuisce le potenzialità, ma che in patria ha già dato il meglio di sé (un solo romanzo dal 2003). L’Einaudi allora interrompe la serie di Vik & Stubø e “ripiega” su Hanne: con L’unico figlio siamo alla terza avventura, compresa la ristampa, naturalmente con altro titolo, del vecchio episodio apparso da Hobby & Work.

Non è un vero miracolo che la fortuna del pubblico italiano arrida ancora a questo brillante ex ministro della Giustizia norvegese?

Ma veniamo alla vicenda che, in verità, all’inizio appare assai poco coinvolgente: un dodicenne problematico, Olav Håkonsen, viene strappato a una madre anch’essa disturbata e affidato a una casa-famiglia dove non si trova affatto a suo agio; e qui, grazie anche ad alcuni inserti narrati in prima persona dalla madre del ragazzo, parte il solito atto d’accusa ai servizi sociali scandinavi da noi italiani per troppo tempo idolatrati. La struttura assistenziale dell’Esercito della Salvezza si trova a Oslo, ma assomiglia fin troppo a certe misteriose ville del giallo inglese e non a caso la direttrice Agnes Vestavik, che la dirige con pugno di ferro in guanto di velluto, finisce pugnalata in circostanze misteriose mentre le indagini scoprono a poco a poco una serie impressionante di (metaforici) scheletri negli armadi.

Il pacchetto di mischia della Centrale della Omicidi di Oslo è guidata dalla nostra Hanne, fresco ispettore capo che non vuol saperne di abbandonare la strada per la scrivania e che, sul piano privato, ha qualche difficoltà sia nello sbandierare la sua convivenza con Cecilie Vibe (36 anni e si conoscono da 17) sia nel concedere a quest’ultima la gioia della maternità. Accanto a lei il gigantesco Billy T. (che sta per Torvald), trasferito da poco nella squadra e proveniente dalla Narcotici dove faceva l’infiltrato: pieno di vita, di donne e di figli (quattro con quattro diverse madri), l’unisce ad Hanne una virile amicizia senza complicazioni sentimentali o sessuali. Completano il gruppo Erik, che una cotta per Hanne l’ha avuta, e Tone-Marit, giocatrice di calcio a tempo perso nella serie A locale e persino in nazionale.

Dall’altra parte della barricata, oltre ad Agnes, ci sono alcuni collaboratori tra cui spiccano Terje Welby, ufficialmente il vicedirettore, e Maren Kalsvik, colei che, per le sue riconosciute capacità, riesce a sintonizzarsi meglio sulla lunghezza d’onda dei bambini: i quali, sullo sfondo, offrono un quadro abbastanza sconcertante dell’infanzia offesa nella civilissima Scandinavia.

Ma, come in un giallo di Agata Christie, tutti gli attori – chi più, chi meno, poliziotti inclusi – rivelano un lato sconosciuto della loro vita: Hanne è costretta a rivelare la propria vita privata, Billy il misterioso secondo nome, Tone-Marit il suo hobby; e poi vite matrimoniali ormai appassite, maternità difficili, avidi amanti, blanda dipendenza dai tranquillanti, distrazione di somme dalla cassa comune, millantate benemerenze pedagogiche. E il cerchio alla fine si chiude con un’autentica capriola: la soluzione era in mano al lettore sin dalle prime righe e non l’ha voluta vedere; rimane comunque la soddisfazione di scoprire che – in modo assai eterodosso – neppure la sensibile e cocciuta Hanne è riuscita a intuirla.

Noir complesso dunque, costruito come un mystery d’annata, ma con ingredienti tipici dei romanzi d’inchiesta nordici, con una detective sicuramente originale, ma non infallibile e con uno sfondo di desolazione umana come solo certi narratori scandinavi sanno regalarci.

Un buon viatico dunque per aspettare con una certa impazienza le successive prove di Anne (pura coincidenza l’omofonia tra autrice e personaggio? Holt.

Voto 7.5.