Bisogna entrare in se stessi armati fino ai denti

Paul Valéry

estratto del romanzo Le madri cattive di Nicoletta Vallorani (Salani, Petrolio, 2011) pag. 256 - 14 euro — ISBN: 9788862562058

Questo è un paese cattivo.

Gli inverni sono lunghi e affilati, e noi sopravviviamo a stento.

Camminiamo senza parlarci, cercando ogni giorno di arrivare a sera.

Nessuna di noi sa quando si fermerà. A volte, qualcuna si perde, si infila nella foresta, scivola in un fiume gelato.

Nel fitto degli alberi cerchiamo un buio che possa cancellare il rosso del ricordo. Qualcuna di noi ferma il fiato nel freddo e non respira per minuti interi, cercando di rinunciare alla vita, ma non ci riesce, e alla fine, con le guance rosse dallo sforzo, tira dentro aria col ghiaccio di questo tempo che non cambia.

Noi siamo quelle condannate a restare. Siamo acqua sporca nella latrina, veleno nel calice del re, fiamma che non si spegne e non scalda. Donne senza dolcezza, femmine senza sensualità.

Noi siamo il pericolo.

Noi siamo il male che è meglio non conoscere, perché è quello che non si piega.

Noi siamo fastidiose, inessenziali, incomprensibili.

Siamo le madri.

1.

In quest’ultimo tratto, si corre paralleli al mare, alternando le distanze, senza mai accostarsi troppo. La spiaggia si allarga e si contrae, quasi seguendo il respiro misurato delle onde. Il mare blu ormai quasi d’inverno merletta la riva. Nulla è fermo. L’orizzonte cambia. Gabbiani accovacciati sulle barriere di scogli, fantocci scompigliati che d’improvviso spalancano le ali aspettando il vento. Il vento arriva. Li porta.

-Sei arrivata, signora?

Sorrido alla bambina sporca, bionda, col vestito a fiori arrampicato sulle ginocchia e un buco nelle calze, troppo grandi per lei. Su un fianco, pende in nastro di una cintura slacciata. –Quasi- dico, lisciandomi una gamba.

-Chi ti aspetta?- chiede seria, guardandomi negli occhi. –Chi ti aspetta?

Sorrido, e non so cosa rispondere. Non mi aspetta nessuno. Per la prima volta. –Mia madre - mento, poi torno a guardar fuori, stringendo la cinghia della mia borsa.

Il treno rallenta. Chiudo gli occhi.

Nessuna bugia è innocente. La bambina è contenta. Figlie e madri: il mondo è in ordine.

Ho fatto questo viaggio quando? Un mese fa?

Mia madre è morta da poco, un nastro logoro che alla fine si è spezzato. Ma prima di spezzarsi ha preteso numerosi rammendi, viaggi infiniti, veglie, silenzi, liti, lacrime attese che non sono mai arrivate. Non ho versato una sola lacrima. Mi sono occupata del funerale, ho accettato le condoglianze, mi sono vestita di nero e sono rimata in piedi accanto a mio fratello a cercare di provare quello che provava lui: dolore, assenza, nostalgia, vuoto.

Niente.

Ho continuato per tutto il tempo a pensare: cosa vogliono da me? Era già morta: questo decesso è un atto formale. Abbiamo celebrato con molto ritardo l’abbandono che mia madre da moltissimo tempo aveva consumato con la vita e con noi tutti suoi parenti più stretti.

Naturalmente nulla ho detto di tutto ciò.

A Milano, prima di partire per il funerale , ho fatto una foto: un vecchio seduto su un muretto, con la schiena curva, che oscillava avanti e indietro. Era ormai la fine di agosto, allora. Un caldo tremendo e inspiegabile, prima che arrivasse d’un tratto l’inverno, saltando la stagione intermedia. Sembrava stesse male, il vecchio. Non mi sono avvicinata. Ho fotografato e basta, quieta, un occhio sul mondo. Poi me ne sono andata nella foschia del caldo.

Continua a tornarmi in mente quel momento. Risento il caldo. Mi chiedo perchè ho scattato quella foto. Non fotografo mai per strada. E non fotografo Milano, se non di notte, quando la realtà dorme. Ho sempre vissuto in questo mondo di mezzo, dove entrano i fantasmi. Io li lascio avvicinarsi e cerco di intrappolarli in un’immagine. Rubo anime, e ho una consuetudine con la morte. Credo che la maggior parte della gente che mi ha vista vegliare mia madre abbia giustificato la mia impassibilità pensando al mestiere che faccio. Io fotografo le scene del crimine e, se ci sono, i morti. Diversamente da quel che pensano in molti, io so che nella morte non vi è nulla di definitivo. Si torna sempre. In una forma diversa.

Il mio è un mondo di fantasmi.

Scendo dal treno con passo leggero, un Peter Pan senza peso e senz’ombra. Con la coda dell’occhio, intuisco lo sguardo perplesso di un ferroviere che non riesce a combinare i miei capelli bianchi col corpo ancora giovane. Mentono entrambi, il corpo e i capelli: la verità è nel mezzo, e come sempre si intrappola in quel che appare. Mi volto e resto a guardarlo un momento di troppo.