Dopo il successo de “L’ultimo libro” (del 2007 ma proposto in Italia nel 2010), la TEA rispolvera un’antologia del 2002 firmata dall’autore serbo Zoran Živkovic: “Sei biblioteche”. In realtà i sei racconti del libro sono da considerarsi come sei capitoli di un’unica storia, visto che sono strettamente legati.

Sei storie paradossali e paranormali, impossibili come è impossibile gestire una biblioteca casalinga, inquietanti come consultare la propria bibliografia futura, paradisiaci come scoprire che l’inferno è una biblioteca...

Convitato di pietra di questa raccolta, va detto, è Jorge Luis Borges (secondo cui invece è il Paradiso ad essere una biblioteca), il maestro argentino a cui Živković ha strizzato un occhio... se non tutti e due! Le storie sono innegabilmente permeate di ispirazione borgesiana ma questo purtroppo ne costituisce un difetto, invece che un pregio.

Sei biblioteche” commette un peccato difficilmente perdonabile da parte del bibliofilo: racconta storie di libri evitando accuratamente di giocarci. A che serve il paradosso e la storia onirica se non si può trattarla in modo scanzonato e simbolico? A che servono i libri se non ci si può giocare?

A dispetto dell’ispirazione borgesiana, i racconti vengono trattati come se fossero “storie del mistero”: si pone cioè il protagonista di fronte ad una situazione impossibile o a eventi paranormali, e lo si osserva mentre si comporta in modo logico e razionale.

Se una persona finisse inavvertitamente nella Biblioteca di Babele, come si comporterebbe? La domanda stessa - che sembra alla base delle ispirazioni delle sei storie, le quali presentano sei protagonisti identici alle prese con situazioni librarie paradossali - è indice che si sta affrontando il tema in maniera non simbolica, non paradossale ma logica. Ha poi molto senso affrontare in maniera logica una storia illogica? Sarebbe come chiedersi cosa succederebbe se ci si trovasse nel punto improprio in cui due rette parallele si incontrano: la risposta potrebbe venire solo a livello simbolico (come le vicende dell’Onoff del nostro Giuseppe Tornatore), perché altrimenti ci si ritroverebbe “ai confini della realtà”... e non si farebbe che tradire Borges!

Tutto questo è lontano dall’essere una critica: Živković rimane uno dei più gustosi autori nel panorama della letteratura bibliofila, ma quello che gli si rimprovera è l’arrivare a un passo dal capolavoro... per poi fermarsi un attimo prima.

Avere l’ispirazione di Borges (paradossale-simbolica, se non addirittura poetica) e poi svilupparla come Rod Serling (lo storico autore della Twilight Zone che amava calare protagonisti razionali in situazioni paranormali) non è sbagliato, ma solamente un peccato: percorrere una sola delle due strade avrebbe portato a risultati migliori.

Živković crea con tratti veloci ma precisi un suo personale mondo bibliofilo - a misura di libro - in cui il lettore è sempre compartecipe dello stupore dell’io narrante di fronte ai paradossi di cui è testimone. Ci sia consentito tornare a citare Borges, in chiusura, per testimoniare come noi (lettori) e Živković «abbiamo sognato il mondo. Lo abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e fermo nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità, per sapere che è finto». “Sei biblioteche” raccoglie storie vissute in questi “eterni interstizi di assurdità”, e se fossero state trattate con più simbolismo o anche se solo l’autore si fosse divertito a giocare di più con loro, sarebbero state dei piccoli capolavori. Invece rimangono una buona lettura... che non è comunque poco!