La memoria delle mani

Altro che carta, per raccontare questa storia servirebbe un video. Perché come fai a descrivere un gioco di cui non hai mai conosciuto il nome? Un passatempo che mi insegnò mia nonna millenni fa; un pezzo di spago da intrecciare a turno. Qualcosa che avrei profondamente dimenticato se mia madre non avesse provato a spiegarlo alla mia bambina.  E così, quando anche credi di non ricordare niente, le mani si muovono senza incertezza. Hanno memoria.

Sembrerà strano che cominci così, ma ho le mie ragioni, sapete.

Quell’estate, nella casa di risposo, i vecchietti morivano più per la noia che per il caldo.

Ovvio che le famiglie cominciassero a lamentarsi. Perché quando investi un patrimonio per tenere i tuoi cari in una ‘casa albergo’, come minimo ti aspetti che passino a miglior vita in un periodo di bassa stagione.

Eccoli dunque, i parenti affranti nel bel mezzo delle vacanze. Ed eccomi, Elly bassastagione, come mi chiamano i colleghi: la mia bambina, mia mamma ed io partiamo a settembre, tutti i santissimi anni. E andiamo in montagna.

Per farla breve, quel  ferragosto io ero come al solito in città e i miei in Calabria.

Dopo le ultime despedite, la direzione aveva approvato l’installazione di una piscina.

Una di quelle ‘esterne’ con un un accesso superagevole per i diversamente abili e l’acqua che arriva al massimo alla vita.

“Diventerà un piasciatoio” aveva sentenziato Peppino, il tuttofare della struttura. E in effetti, il mio daffare per mettere e togliere pannoloni, quell’estate, si era ridotto, mentre le dosi di cloro erano progressivamente aumentate.

Con gli ospiti ero gentile e sollecita. La verità è che mi piacevano i vecchi. Tra tutti, la contessa - come l’aveva soprannominata il dottore - era la mia preferita.

Se ne stava sulle sue, parlava poco.

Avrebbe letto se la vista fosse stata buona come un tempo. Così, quando finivo il turno, sapendo che a casa ad aspettarmi avrei trovato il frigo semivuoto e un lavoro a maglia iniziato l’anno prima, mi attardavo con lei, leggendole qualche passo delle sue storie preferite.

Quando faceva più fresco, passeggiavamo nel viale del parco, allungandoci fino al boschetto. Quanto alla piscina, ero certa che morisse dalla voglia di provarla, con quel caldo, poi… 

Me lo aveva fatto capire raccontandomi di quando, da giovane, l’avessero spesso scambiata per Esther Williams.

Fu così che la convinsi, uno dei pomeriggi in cui restai con lei. Le infilai una bella cuffia, e pazienza se il costume non ce l’aveva, il body contenitivo sarebbe andato benissimo. L’acqua non era mai troppo fredda, e avevo il termometro a portata di mano.

L’accompagnai dolcemente.

Le due gabbiette erano una difronte all’altra, il mio cardellino fischiava allegro.

Il canarino di mio fratello, invece, era infelice. Lo sapevo.

Non rosicchiava l’osso di seppia che gli avevo infilato tra le sbarre, non provava neppure a sgranocchiare la pasta per bambole che avevo lasciato scivolare nella mangiatoia.

Mi sarebbe toccato imboccarlo come il Cicciobello.

Aprii la porticina a molla della gabbia afferrandolo delicatamente, provai a fargli cadere nel becco qualche granello di pastina. Sentii il cuore battergli forte. Sarei stata la sua mamma.

“Piccolo - dissi ad alta voce – ora  è il momento del bagnetto”.

Non tremavi, non ti dibattevi. Te ne stavi buono buono, mentre ti spiegavo come si fa a nuotare sott’acqua.

La tua prima vasca, Giallino. E l’ultima.

Anche la contessa si lasciava guidare. Come me, qui dentro, non la conosceva nessuno.

“Provi, provi l’apnea” le dico, mentre le tengo la testa sotto per appena qualche secondo. Anche lei è felice.

Il canarino di mio fratello se ne sta duro, con le zampette in aria. “Bravo - gli faccio -  adesso è l’ora del riposino”. E scappo a prendere la copertina di Barbie in camera mia.

La contessa, invece, sale a galla.

Come se qualcuno l’avesse spinta dal basso. Con urgenza, come uno gnocco di patate al punto di cottura.