Ci sono persone dedite al crimine, alla violenza, all’intimidazione, persone comuni simili a tanti altri che sembrano avere una propensione verso la corruzione, il dominio, persone che fanno parte di varie associazioni, che si costituiscono in gerarchie di potere, poco importa se vengono chiamate Cosa Nostra, Camorra o ‘Ndrangheta, ciò che le caratterizza è la loro sete di denaro e potere, assoggettando il più debole e rendendo sterile e impaurito il luogo nel quale vivono. Ma ci sono anche uomini votati  alla giustizia, al dovere verso il proprio paese, alla salvaguardia del prossimo a tutela di quel bene comune chiamato vita, uomini che fan si che, la giustizia non sia solo una parola, uomini inclini alla disciplina, gendarmi senza uniforme, senza un viso che li possa identificare, e se mai c’è stata una guerra per portare la pace, questa è proprio quella che ogni giorno vivono questi paladini della giustizia che celano la loro identità con nomi di battaglia, perché identificarsi così è più semplice e sicuro. Sembra un gioco da adolescenti ma è la realtà di questo personaggio della Catturandi di Palermo che si identifica con la sigla IMD, nonostante si sia reso disponibile per l’intervista non ci è dato conoscere il suo vero nome, neppure il suo volto, perché lui è 100% sbirro.  Ha voluto raccontare la sua straordinaria  storia in un libro con la giornalista Raffaella Catalano edito da Dario Flaccovio Editore, permettendo di conoscere come un paese “piagato” e “sanguinante”, possa nascondere al suo interno una cura che possa lenire il suo dolore.

La qualità necessaria per essere uomo della  Catturandi?

Non necessitano doti eccezionali: attenzione per i particolari, pazienza, costanza, intuito, iniziativa e una buona dose di fortuna. 

Si teme di rendere nota la propria attività anche in famiglia?

A casa mia – e credo che questo valga anche per i miei colleghi –

non si parla di lavoro. Mia moglie scoprì che facevo parte della Catturandi solo dopo un anno che ci frequentavamo e solo perché mia suocera, guardando il telegiornale, capì che tra gli uomini incappucciati che portavano Giovanni Brusca dentro la Squadra Mobile di Palermo c’ero pure io. Mi disse in seguito – dato che portavo un passamontagna – che aveva riconosciuto il mio sedere…

Come si passa delle ore attaccati ad un apparecchio per le intercettazioni all’azione sul campo?

Non è difficile. Nonostante ciascuno di noi sia specializzato in un settore – io, per esempio, mi occupo prevalentemente di intercettazioni telefoniche – tutti devono saper fare tutto. Così, tolte le cuffie, non è raro che io esca con i miei colleghi di pattuglia a far pedinamenti o altro.

Avere davanti un boss tra i più importanti, cosa si prova?

E’ come aver vinto il campionato di calcio o come aver conquistato una donna affannosamente corteggiata. Poi, però, passata l’euforia, come i calciatori o i dongiovanni più incalliti, si ricomincia da capo alla ricerca di una nuova conquista.

Pare che alcuni latitanti facciano una vita normale, perchè è difficile scovarli?

I latitanti non fanno una vita “normale”, almeno quelli che cerchiamo noi. Sono potenti e hanno ingenti risorse di denaro che permettono loro continui spostamenti, cambiamenti di covi e personale alle loro dipendenze ventiquattr’ore su ventiquattro. Ma non possono stare con le famiglie, né incontrarsi liberamente con gli altri affiliati. Vivono sempre nell’ansia che qualcuno li possa fregare. Se gli va bene, è la polizia. Ma se gli va male, è qualcuno che cerca di fargli la pelle. Direi, e perdonatemi il termine, una vita di m…!

Un aggettivo per descrivere la cattura di Provenzano?

Epica!

Il momento più difficile vissuto alla Catturandi?

Di momenti difficili ne abbiamo affrontati molti. Personalmente, il ferimento di un paio di compagni per mano del padre di un neo collaboratore di giustizia fu davvero una brutta esperienza. Solo la prontezza di riflessi di un terzo collega evitò una tragedia più grande: benché anch’egli ferito, riuscì a bloccare l’attentatore senza neanche sparargli. Uno di loro è rientrato dopo due anni e non può più prestare sevizio al 100%.

La mafia arriva davvero ovunque?

La mafia può arrivare ovunque perché sfrutta le debolezze dell’uomo e le carenze delle istituzioni. Là dove le debolezze sono mitigate dall’onestà, dalla dignità e dal senso civico delle persone e delle istituzioni la mafia non potrà mai arrivare.

Ha mai provato pietà per un arrestato?

Pietà, no. Compassione per le famiglie dell’arrestato e frustrazione per il fallimento del “sistema società”, questo sì. Avendo seri dubbi sul ruolo riabilitativo della pena, specie per i reati di associazione mafiosa, ritengo che in questi casi la sola privazione della libertà non sia sufficiente. Andrebbe perseguita una riabilitazione seria e profonda, non solo per il reo, ma nei confronti del suo intero nucleo familiare e parentale. Visto che è impossibile, allora deve essere la società a intervenire. Pochi giorni or sono, a Castelvetrano, in provincia di Trapani, il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingoia, insieme al collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, ha provato a parlare ai giovani del paese di legalità e antimafia. Strumentalizzati opportunamente, i giovani non si sono presentati all’evento che è andato deserto. Questo dimostra quanta strada ci sia ancora da fare.

 

Nel racconto si evince che ascoltare per anni le stesse persone agli apparecchi delle intercettazioni crea un legame particolare, ce lo vuole spiegare meglio?

Le indagini  per la cattura di un latitante durano parecchio tempo, persino anni, come si è visto. Tra gli strumenti adoperati per ricostruire i legami psicologici e familiari tra i vari componenti del gruppo più o meno largo legato a un latitante, si mettono sotto controllo telefonico numerose utenze. Durante tutto questo tempo si entra come spettri nelle case, si conoscono nuove persone con cui si interagisce unilateralmente, magari seguendole, scoprendone hobby, passioni, segreti, e pian piano si ci lega anche.

IMD
IMD
Così può capitare che dopo che un’indagine è terminata e tu hai ascoltato migliaia di conversazioni di un ragazzino, hai imparato a conoscerlo, sai dei suoi amori, delle sue paure, dei compiti, ecc., e  improvvisamente tutto questo si interrompe perché l’indagine si è conclusa con l’arresto del latitante o, al contrario, perché era in un vicolo cieco. Vedendo il ragazzino per strada, a passeggio, l’istinto è quello di fermarlo, chiedergli come sta, cosa ha fatto nell’ultimo periodo, come va a scuola. Poi per fortuna ti blocchi e ti ricordi che sei solo un fantasma che lui non ha mai conosciuto, giri la testa e prosegui per la tua direzione. Qualcuno, ultimamente ci ha chiamato “spioni”, ha attaccato lo strumento delle intercettazioni dicendo che violare la privacy della gente è indecente, oltre che ingiusto. Se si sapesse meglio quante vite si sono salvate e quanti delitti sono stati risolti grazie a questo strumento, forse la polemica scemerebbe immediatamente. Chi non ha nulla da nascondere (di penalmente rilevante) non ha niente da temere dalle intercettazioni.

Ha mai temuto per la sua vita?

Qualche volta sì. Però con il tempo non si ci pensa più. Ti difendi dicendoti che nessuno avrebbe vantaggio nel farti del male, cosa che – per inciso – è vera. Ormai le indagini sono spersonalizzate, si lavora in gruppo e si condividono le notizie, per cui sarebbe insensato per la mafia colpire uno di noi poliziotti. Servirebbe soltanto a rimpinguare gli uomini e i mezzi impiegati nella lotta a Cosa nostra. Questo i mafiosi lo hanno ben capito. Ecco perché la strategia stragista si è conclusa e ritengo che difficilmente potrà essere ripresa.

Essere  uomo di legge è un dovere o una vocazione?

Essere un uomo di legge comprende entrambe le cose. E’ un dovere perché hai fatto il giuramento di rispettare le leggi e di proteggere i cittadini, anteponendo in caso di pericolo la loro incolumità alla tua. E’ una vocazione perché alcune volte ti sembra di essere solo in un mondo che ti rema contro, ma continui a lavorare perché credi fino in fondo in quello che fai. 

La delusione più grande professionalmente parlando?

Io sono uno dei poliziotti contenti ed appagati per ciò che fanno, e spero siano in tanti.  Non ho provato grandi delusioni. Forse qualche rammarico: mi sarebbe piaciuto far carriera  e diventare commissario, ma oggi, quarantenne e con prole, ho difficoltà ad allontanarmi dalla famiglia e modificare il mio stile di vita. E poi non avrei più tempo per scrivere… Comunque non è escluso che, con il tempo, io possa realizzare anche questo di sogno. Chissà.

Ci può dire dove si sta indirizzando il vostro operato in questo periodo?

Assolutamente no! Però, dato che in giro rimangono pochi latitanti di mafia, potreste arrivare a intuirlo.

Alla luce del lavoro che portate avanti, che idea ha del nostro paese?

Il nostro paese è giovane, nonostante i millenni di storia, e per questo ha ancora molti problemi da affrontare e risolvere, specialmente al sud. Negli ultimi tempi sono rimasto molto deluso dalla classe politica e questo ha un riscontro anche nelle molteplici indagini di polizia giudiziaria a cui ho partecipato. Sono convinto che tanta strada si debba ancora percorrere, però almeno qui a Palermo qualche passo avanti è stato fatto.

Concorda nel dire che la regione più soggetta a intercettazioni è la Sicilia, o l’attività è la medesima anche nelle altre regioni?

Non ho dati precisi che possano confermare o smentire questa affermazione. Certamente in Sicilia, come in Calabria e in Campania, le forze di polizia fanno largo uso delle intercettazioni, che – lo ripeto – sono indispensabili nelle indagini contro la mafia. Le intercettazioni, come il denaro, sono uno strumento di per sé neutro: è l’uso che se ne fa che determina se sia a fin di bene, quindi lecito, oppure no.