Lettera dall'Eritrea

La cartolina recava ben visibile in alto la stampigliatura “Cartolina postale per le Forze Armate Africa Orientale” e, al posto del francobollo, la dicitura “Esente da tassa per l’Italia e sue Colonie”. Era una vecchia cartolina sgualcita, color seppia, il cui testo scritto di pugno recitava: “Compagnia Carabinieri dell’Eritrea. Sezione di Asmara. A.O.I.”. Faceva effetto, rileggere quelle coordinate: “24 febbraio 1941 – Teniamo alto l’Onore dell’Italia. Brigadiere Mario Petruzzi”.

Francesco fu scosso da un brivido. Nella sua mente si materializzò l’immagine del nonno che, all’interno di una caserma abbacinata dal sole africano, chino e dimesso, scriveva questa cartolina ai suoi cari. Nessun cedimento alla rigidità militare richiesta, nessuna manifestazione di sentimento, nulla che non fosse un’espressione impersonale e controllata. Mai avrebbe potuto dire: “Sto bene, mi mancate”, “Vi voglio bene”, “Qui le cose vanno male, gli Inglesi ci stanno costringendo a un’inevitabile resa”. La Censura sarebbe intervenuta implacabile sulla posta in franchigia dei suoi militari.

Provò ad immaginare suo nonno all’età di trent’anni, giovane brigadiere che aveva sposato la causa coloniale, pur non avendo grosse possibilità di scelta. Lo immaginava così, in bianco e nero, con il volto delle poche fotografie ingiallite che aveva trovato molti anni prima in una cassetta metallica a casa della nonna. Suo padre, Filippo, ne parlava sempre pochissimo. Quando nacque, il brigadiere Petruzzi stava combattendo in Africa e poté rivederlo solamente nel 1938, quando tornò a casa per un breve periodo di licenza. All’epoca aveva solamente tre anni.

* * *

Era una mattina di febbraio, il brigadiere Mario Petruzzi stava curando il prelievo dell’acqua potabile da parte dei suoi sottoposti. L’acqua: un bene che non si poteva sprecare, data la scarsità di risorse e le temperature insopportabilmente alte. Osservandoli al lavoro, non pensava a loro come a colleghi di rango inferiore, ma come ad amici, tutti coetanei. L’offensiva inglese aveva fiaccato le riserve italiane, così come gli entusiasmi. Gli ufficiali non erano in grado di gestire l’imminente disfatta e, giorno dopo giorno, gli avamposti dovevano ritirarsi, subendo numerose perdite. Tutto l’esercito, ad ogni livello, era composto da giovani che poco avevano a che vedere con la vita militare, tanto meno con la guerra. Molti di loro si erano arruolati perché obbligati, altri nella speranza che, una volta finita la guerra, ci sarebbe stato un pezzo di terra d’Africa anche per loro, dove riunire la famiglia e provare ad essere felici. La vita in Italia era dura, in quegli anni, e la possibilità di migliorare le proprie condizioni sociali ed economiche faceva gola a chi aveva visto morire di stenti e malattie parenti e amici.

Le cose in Eritrea non sembravano andare male. Dopotutto gli Italiani erano sul posto da almeno una generazione e gli indigeni non nutrivano particolari rancori nei confronti dei militari e dei coloni che si erano insediati nel loro Paese. Tutto sommato, avevano portato anche cose buone. Quanto ai Carabinieri, erano amati da tutta la popolazione, tanto dai nuovi insediati quanto dai nativi.

Qualcosa, però, cambiò repentinamente dopo che il Duce decise l’entrata in guerra al fianco della Germania nazista, nel giugno del 1940.

Da tempo girava voce che gli Inglesi avrebbero preso il controllo del Paese, le forze erano maggiori e meglio organizzate, inoltre i patrioti etiopici, armati dai Britannici, combattevano gli Italiani, mentre gli ascari d’Etiopia, a differenza di quelli eritrei e somali, ne disertavano i reparti.

Nel gennaio 1941, meno di un mese prima, gli Inglesi avevano sferrato un’offensiva dal Sudan e avevano riconquistato Cassala. Gli Italiani avevano ripiegato su Agordat e Cheren, e lì si attestarono. La battaglia di Cheren stava imperversando come una tempesta. La 3a Compagnia “Carabinieri e Zaptjé”, appena giunta in zona, si stava distinguendo fra le file delle truppe italiane impegnate.

Mario aspettava il giorno in cui la sua Compagnia sarebbe stata impiegata al fianco dell’Esercito in un’offensiva che avrebbe dovuto respingere gli Inglesi e proteggere la strada per Asmara.

Le giornate passavano nell’attesa di notizie dal fronte. Notizie delle perdite. Nessuno credeva davvero di poter respingere l’avanzata nemica, nonostante l’alacre lavoro della Propaganda.

Asmara era una città piacevole, adagiata sul suo altipiano, in certi momenti si poteva quasi credere di non essere in guerra. C’era persino un cinematografo, il Cinema Impero.

A quel tempo, Mario aveva fatto amicizia con un ascaro eritreo: si chiamava Hamid Tekle, un ragazzo di poco più di vent’anni, magro e dinoccolato. Nei suoi occhi scuri c’era la storia di un popolo, la sofferenza di un Paese occupato, il delirio di Governatori e governanti, ma il suo sorriso ingannava chiunque. Si sarebbe detto perfino che fosse un ragazzo felice. Tuttavia il suo sguardo tradiva una certa diffidenza, come a voler celare un segreto.

Iniziarono a trascorrere parecchio tempo, insieme. Hamid parlava un discreto italiano. Il ragazzo raccontava dell’epopea della sua famiglia e di quanto gli sarebbe piaciuto vivere il suo Paese in tempo di pace, poter studiare, conoscere il mondo, andare in Italia. Pochi anni prima, una delle sue sorelle aveva perso la testa per un granatiere italiano. Una settimana dopo, quella stessa sorella perse realmente la testa, decapitata da uno zio squilibrato che, a colpi di machete, l’aveva condannata e uccisa, nella presunzione di sapere cosa fosse successo fra i due innamorati. L’Eritrea poteva essere un paese bellissimo, ma anche terribile. Le tipiche, forti contraddizioni di un paese africano.

Prima di Asmara, il brigadiere Petruzzi fu impiegato sull’isola di Nocra, al largo delle coste di Massaua, dove esisteva il campo di prigionia più grande dell'Africa Orientale Italiana. Le condizioni dei detenuti erano miserrime, per il loro sostentamento erano concessi solamente pochi grammi di farina, tè e zucchero, razioni che non erano neppure garantite giornalmente. I detenuti, coperti di piaghe e di insetti, morivano lentamente di fame, scorbuto, dissenteria, malaria. Mario ne rimase sconvolto. Non c’era un medico per curarli, erano costretti al lavoro forzato nelle cave di pietra, con temperature che a volte raggiungevano i 50 gradi. Erano ridotti a scheletri, luridi. Quelli in isolamento avevano perduto l’uso delle gambe, costretti a vivere su tavolati alti un metro da terra. La mortalità era altissima. Il brigadiere cercò in ogni modo di essere trasferito da quell’inferno, con il pretesto di desiderare il fronte.

La fortuna parve assisterlo pochi mesi dopo, ma non per il soddisfacimento della sua richiesta.

In un infuocato pomeriggio di maggio del 1937, Mario stava ispezionando il razionamento dell’acqua salmastra che veniva estratta dall’unico pozzo del campo. Due prigionieri scheletrici tiravano stancamente la corda, dall’altro capo della quale, attraverso la cigolante carrucola, stava salendo il secchio. Con lui c’erano due carabinieri e un giovane tenente, che si era fermato a dare disposizioni. La fatica degli eritrei era lampante. Finalmente il secchio affiorò, uno degli uomini trattenne la corda, mentre l’altro lo afferrò per versarne il contenuto in una tanica. Le malferme gambe cedettero di colpo, senza preavviso, come se fosse stato previsto un appuntamento con il destino di quella povera vita. Stramazzò rovinosamente, trascinando con sé il secchio che si riversò sui pantaloni dell’ufficiale italiano. Mario si affrettò a soccorrere l’uomo, ma il tenente urlò di spostarsi. I suoi occhi azzurri erano iniettati di sangue, estrasse la pistola dalla fondina, la puntò alla fronte del prigioniero e fece fuoco! Il corpo del brigadiere fremette come se fosse stato colpito lui stesso dal proiettile. Voltandosi, il tenente ordinò di portare via il cadavere e si allontanò con passo deciso, imprecando contro i nativi.

Quella notte, Mario non riuscì a dormire. Contò i minuti che l’avrebbero diviso dalla richiesta di essere messo a rapporto dal Comandante della Compagnia. Il suo senso della legalità gli impediva di accettare che un fatto di tale gravità potesse essere dimenticato tra le scartoffie di una guerra assurda. Nell’esporre i fatti, la sua testimonianza fu accolta con sufficienza, come se l’abitudine all’orrore avesse reso ormai plausibile ogni atto, anche l’omicidio. Ben presto, si rese conto che le sue parole non avrebbero portato a nulla. Iniziò a scrivere un memoriale con le informazioni e le testimonianze raccolte difficoltosamente: il suo nuovo nemico era la garanzia d’impunità. Da lì a poco, il brigadiere Petruzzi fu trasferito ad Asmara.

 

* * *

Era una giornata come tante altre, tutto, lì, rischiava di essere qualcosa “come tante altre”; Hamid cercò Mario con lo sguardo, mentre usciva dal Quartier Generale italiano. Appena lo vide, gli si fece incontro, solo lui avrebbe potuto esaudire un desiderio cullato da tempo.

«Mario, voglio andare al cinema!».

«Al cinema? Hanno sospeso le proiezioni, amico mio. Al fronte ci sono uomini che muoiono».

«Mario, ti prego! Io voglio andare al cinema!».

«Sai che non è possibile, Hamid! Ed io non posso farci nulla».

Il ragazzo abbassò lo sguardo, sconsolato. Mario gli poggiò una mano amica sulla spalla.

«Mario, presto gli Inglesi saranno qui e con loro i ribelli partigiani e gli Etiopi. Per noi sarà la fine», disse Hamid con gli occhi ricolmi di lacrime.

Nelle parole del giovane c’era la consapevolezza di chi sa con certezza quello che dice, di chi non vede oltre il domani, perché sa che il domani non ci sarà.

Mario non dormì per due notti, pensando alla richiesta dell’amico. Il terzo giorno cercò il custode del cinema. Non fu facile trovarlo. L’uomo era un italiano di mezza età, burbero e poco incline al dialogo. Il brigadiere dovette dare fondo a tutte le sue capacità persuasive, a parecchi denari e a qualche informazione, per poterlo convincere.

Alcuni giorni dopo, Mario incontrò Hamid. Era triste come mai prima d’ora, aveva quasi  perduto il desiderio di parlare. Le notizie da Cheren erano scoraggianti, qualcuno iniziava a fare i bagagli e a mettersi in viaggio per Massaua.

Mario sorrise emozionato.

«Amico mio, vieni con me: ti porto in un posto speciale!».

«Un posto speciale?», ripeté il ragazzo con scarso entusiasmo.

«Vedrai».

Quando furono davanti all’ingresso del Cinema Impero, Hamid volse lo sguardo all’amico italiano, con gli occhi di chi aveva capito. Mario gli fece cenno di tacere e lo invitò a seguirlo in una stradina laterale. Si trovavano nel cosiddetto “Campo cintato”, il centro di Asmara, rigorosamente vietato agli Eritrei dalle severe leggi razziali. Giunti all’entrata di servizio, Mario guardò l’orologio.

«Dovremmo esserci».

Una manciata di minuti dopo, la porta si aprì. Il custode non disse nulla e fece cenno di entrare in fretta, poi chiuse i battenti alle spalle dei due amici. Fece strada nel buio, fino ad una successiva porta. L’aprì e gli occhi di Hamid si illuminarono a far luce, il suo bianco sorriso disegnò una mezzaluna nell’oscurità.

«Grazie, Mario!».

I due si accomodarono. Erano padroni della platea vuota, da soli al centro della sala. Mario aveva portato via due piccoli pacchetti di gallette e un po’ di cioccolato. Hamid non stava nella pelle.

«Adesso cosa succede?».

«Guarda! E non parlare».

Improvvisamente, il grande schermo s’illuminò, colpito da un fascio di luce proveniente dalle loro spalle.

Mario aveva pagato un extra per non vedere i soliti film di propaganda come Il cammino degli eroi o Sentinelle di bronzo, ma fu sorpreso quanto l’amico africano, quando apparve il titolo sullo schermo: Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno.

I ragazzi risero e si divertirono, increduli di poter essere proprio lì, per un attimo dimentichi della guerra.

Improvvisamente tornò il buio, il custode irruppe in platea e, bisbigliando, gli ordinò concitatamente di darsela a gambe.

Mario e Hamid scapparono veloci come saette nel buio, fuori del cinematografo. Quindi, nella stradina laterale, ripresero a correre il più veloce possibile.

Quando furono a una certa distanza, si buttarono per terra dietro un muretto di sassi, si guardarono fisso negli occhi, stremati e con il fiatone, e scoppiarono a ridere a crepapelle.

Gli alamari della divisa di Mario brillavano al sole quasi quanto l’incontenibile sorriso di Hamid.

Non avrebbero mai saputo il perché di quella brusca interruzione e di quella fuga. Mario pensò che in realtà il custode avesse inventato tutto per timore di essere scoperto e per intascare i soldi senza dover rischiare troppo.

In quel momento, Hamid cambiò umore e decise di rivelare il suo segreto.

Prima di Asmara, era stato a Massaua, dove sbarcavano le truppe italiane. Le donne del porto raccontavano di un ufficiale particolarmente violento, sostenevano che si comportasse con loro come se tutto gli fosse concesso. Lo chiamavano Tzaedà Bequarià, per la sua pelle bianca, i capelli biondi e gli occhi azzurri. Hamid finì per incontrarlo. Si trovò faccia a faccia con lui e con la sua ferocia. Quel pomeriggio, incurante di essere notato, stava trascinando fuori da un’abitazione del quartiere indigeno una ragazza visibilmente sconvolta e implorante aiuto. Alla vista dell’ascaro, non esitò a minacciarlo con la pistola che teneva in pugno. Hamid comprese che, se fosse intervenuto, avrebbe rischiato la vita. Alcuni giorni dopo, una prostituta impaurita gli rivelò della scomparsa di una ragazza, aggiungendo che non era stata la prima. Non poté fare a meno di ripensare a quanto aveva visto e allo sguardo rivoltogli da quell’uomo prima di dileguarsi.

Mario comprese che l’iniziale diffidenza dell’amico, in realtà, era paura. Nei suoi occhi, rivide il volto di quel ragazzo ucciso per avere versato accidentalmente dell’acqua e gli tornò in mente quel nome: tenente De Nardis. Forse era solo un’analogia, ma se così non fosse stato, il suo memoriale avrebbe reso giustizia anche per quei crimini rimasti impuniti. Il rapporto redatto era stato segretamente affidato ad un commilitone imbarcatosi il 18 febbraio sulla nave coloniale Eritrea, decisa a sfuggire al blocco marittimo imposto dagli Inglesi.

«Mario, vorrei vedere finire il film!».

Lui lo guardò con tenerezza, quel giovane ascaro non aveva mai visto un film, né mai era stato in un cinema, prima di allora. Gli ascari furono ribattezzati “Leoni d’Eritrea”, ma in realtà erano ragazzi innocenti che avevano giurato fedeltà fino alla morte a una Nazione che non avevano mai visto.

* * *

Francesco non sapeva nulla di queste storie, non poteva sapere realmente cosa ci fosse dietro quella cartolina che sorreggeva con delicatezza temendo di sciuparla. Quante emozioni, vicende, momenti di gioia alternati ad attimi di tragedia.

* * *

I giorni successivi trascorsero con l’ansia di doversi trovare improvvisamente investiti dall’ondata britannica.

Mario fremeva, voleva andare al fronte, iniziava a sentirsi inutile. Non che amasse la guerra, o che fosse un invasato militarista, ma non poteva sopportare il pensiero che i suoi commilitoni fossero a cento chilometri di distanza, a morire sotto il fuoco nemico, senza che lui potesse fare nulla.

Nel frattempo, Asmara era stata sottoposta a continui bombardamenti, che l’avevano colpita in modo indiscriminato. Molte furono le vittime civili.

I Carabinieri, nel confortare la popolazione e impedire atti di sciacallaggio, cercarono di evitare che la situazione potesse degenerare.

Una mattina, impegnato in un servizio di pattuglia misto, Mario notò sopraggiungere una campagnola. Nell’atto di salutare militarmente, gli si gelò il sangue nelle vene: sotto i suoi occhi stava passando il neo-promosso capitano De Nardis. Avrebbe sostituito il maggiore Ambrosi, morto di malaria. Nella sua mente si affollarono i ricordi, i timori, le preoccupazioni per il tempo a venire. L’auto sparì oltre le sagome annerite delle case distrutte.

Arrivò il 26 marzo 1941, un caporalmaggiore attraversò il campo correndo e bussò con veemenza alla porta dell’ufficio del Comandante dello Squadrone di Cavalleria. Mario lo seguì con lo sguardo, poco distante, mentre un carabiniere e altri camerati stavano discutendo di un moschetto che si era inceppato. Da lì a qualche secondo, il capitano gridò:

«Adunata! Adunata!».

I militari, smarriti, si resero conto che era successo qualcosa di grave.

Dopo due mesi di combattimenti senza tregua, Cheren era caduta in mano agli Inglesi. Lo sconforto prese il sopravvento, lo sguardo dei soldati era interrogativo: cosa sarebbe successo, adesso?

Il capitano ordinò di tenersi pronti, in attesa di disposizioni dall’alto.

Mario sentì che era giunto il momento, anche se non l’aveva certo immaginato così. Ormai sembrava di doversi difendere da una fine certa. Pensò a tutti i volti amici che erano partiti nel corso delle precedenti settimane per Cheren e gli si strinse un groppo alla gola.

Il capitano dispose d’informare il Comandante della Compagnia Carabinieri, affidando al brigadiere Petruzzi un dispaccio urgente.

Mario pensò a Hamid: doveva informarlo di quanto stava accadendo. Dopo averlo cercato invano per mezza Asmara, lo incontrò presso il vecchio cimitero, chino su una tomba, silenzioso.

«Hamid?».

«Mario», fece lui, voltandosi.

«Ci sono novità, Hamid, novità poco piacevoli»

«So già tutto, Mario. Stavo pregando sulla tomba dei miei avi perché ci proteggano».

«Hamid, dobbiamo prepararci a combattere! Solo i nostri moschetti possono difenderci dal nemico!».

«Quanto vorrei vedere finire quel film!».

«Ma non è possibile, lo sai! Non c’è tempo, adesso, per il cinema. Avremo tempo dopo, quando tutto sarà finito, quando tornerà la pace su questa terra».

Hamid osservò Mario fisso negli occhi, in silenzio.

«Avrei voluto vederlo finire».

«Non è possibile, Hamid», rispose con un filo di voce, senza lasciare spazio a repliche.

«Torno al campo, faresti bene a fare lo stesso».

Due giorni dopo, arrivò l’ordine di ritirare a Massaua.

Mario si sentì come il topo che rifugge dal gatto, sentiva lo spazio intorno a sé sempre più ridotto, sentiva che l’aria stava diventando sempre più calda e si respirava sempre più a fatica. Nel giro di pochissimo, la Compagnia mosse alla volta del porto eritreo. Anche Hamid dovette partire.

Massaua aveva un clima diverso da Asmara e il mare sembrava poter restituire un po’ di serenità allo spirito. Non c’era entusiasmo, fra le truppe, e anche qui le informazioni che arrivavano non erano incoraggianti.

Mario e Hamid trascorsero un intero pomeriggio al porto, con i piedi a bagno, a fumare sigarette “Africa” rimediate allo spaccio trovato in abbandono. Nessuno dei due fumava, ma chissà per quale motivo, sentivano che era giunto il momento di provare. Così, per scoprire cosa si sentiva. Così, perché non si sa mai.

 

* * *

Francesco trovò un paio di alamari in filigrana d’argento. Erano consunti, ossidati, ma ancora vividi nella memoria. Pensò a suo padre Filippo, ai rari momenti in cui aveva parlato del suo lavoro, delle sue piccole indagini di Stazione, uno di quei Comandi di paese accoccolati sulle colline di un’Italia che doveva mettersi alle spalle decenni di guerra. Anch’egli aveva scelto di servire la Patria vestendo la divisa che fu del padre, sebbene in epoche diverse, vivendo la ritrovata pace fino a che la Storia ritornò sui propri passi, presentandogli anni di piombo e terrorismo. Qualcuno disse, a proposito dei Carabinieri: «Siamo gli unici a fare la guerra in tempo di pace».

* * *

La strada per Asmara era aperta, gli Inglesi entrarono in città il 1° aprile 1941. Le informazioni che arrivavano dalla capitale presagivano una fine imminente. Alcune navi già si approssimavano al porto di Massaua, probabilmente qualcuno avrebbe deciso per la ritirata. Molti lo speravano.

I resti del Battaglione “Uork Amba”, un centinaio di alpini e due ufficiali, riuscirono a sfuggire alla cattura percorrendo circa cento chilometri di zona montana per arrivare ad Asmara, ripiegando ulteriormente per raggiungere Massaua. Nei loro occhi, Mario scorse la disperazione, l’incapacità di accettare quel che avevano vissuto a Cheren. Cercò di avere notizie dei Carabinieri della 3a Compagnia, ma ricevette solamente rispettosi silenzi e assordanti sguardi d’orrore.

Dopo pochi giorni, gli Inglesi furono a Massaua.

Nella mattina del 6 aprile, il tiro dell’artiglieria fiaccò le difese italiane, quindi la fanteria avanzò nel tentativo di prendere la città. Gli scontri furono durissimi e ci furono momenti in cui sembrava che la fine fosse davvero vicina. Fu deciso l’impiego in avanscoperta degli ascari. Il plotone fu riunito, indottrinato alla meglio e mandato a morire contro le truppe nemiche.

Mario cercò con lo sguardo il volto di Hamid. Lo individuò molto distante. Non poteva immaginare cosa stesse provando. Sembrava attento, mentre ascoltava gli ordini del capitano De Nardis, la sua espressione era tesa, rigida, appariva fiero nella sua divisa cachi, il moschetto ’91 e un tarbush rosso fiammante calcato in testa. Quando il plotone si mosse, Hamid si voltò, cercando con sguardo febbrile l’amico italiano: finalmente aveva dato un nome al volto di chi, anni prima, aveva terrorizzato Massaua. La polvere, sollevata da un’improvvisa folata di vento, impedì ai loro sguardi di raggiungersi, mentre l’ordine perentorio non lasciava tempo alla speranza.

Alcune ore dopo gli ascari, partì un plotone di Granatieri. Gli scontri furono violentissimi e via radio giungevano continue richieste di rinforzi.

In serata, gli Inglesi avevano sopraffatto le forze italiane e la mattina successiva proposero una tregua per discuterne la resa. Mario fu inviato con il personale di scorta alla delegazione che avrebbe rifiutato ogni trattativa: l’ordine era di resistere!

Quando giunsero in prossimità della Delegazione inglese, poterono vedere i prigionieri raccolti all’interno di un caravanserraglio. Da una parte c’erano i Granatieri, più distante gli ascari. Mario aveva il cuore che batteva convulsamente, il suo sguardo correva veloce fra le file degli indigeni per trovare il suo amico. Improvvisamente lo vide: era seduto in terra, non sembrava ferito, tuttavia era sporco, stanco, annichilito.

Dopo la trattativa senza esito, gli Inglesi liberarono i soldati italiani che ebbero salva la vita, mentre gli Eritrei furono lasciati nelle mani dei partigiani del Negus. Gli ascari furono presi con violenza dagli Etiopi, fatti alzare con le baionette puntate nelle costole. La Delegazione italiana mosse per tornare al campo base. Sotto la vigilanza britannica, Mario cercò di non perdere di vista Hamid, sporgendosi dal tendone del camion che passava vicino ai prigionieri ascari. Il ragazzo alzò lo sguardo mesto e incrociò quello dell’amico. Lo riconobbe triste e affranto, poi, improvvisamente, le sue labbra si schiusero, si rivolgeva ineluttabilmente a Mario, mentre venivano fatti allineare tutti contro il muro del caravanserraglio. Hamid sorrise. Le raffiche delle mitraglie e moschetti etiopi risuonarono nella silenziosa mattina di aprile con il loro rumore stridulo di ferraglia. Hamid cadde a terra, con i suoi vent’anni, esanime. Le urla di Mario non poterono nulla, sul camion che si allontanava le sue lacrime erano taglienti come lame sul viso scottato dal sole.

La sua mente corse a quella richiesta non esaudita: «Quanto vorrei vedere finire quel film», e il dolore fu violento, nel sapere di non avere potuto assecondare quel desiderio innocente.

L’8 aprile i Britannici sferrarono un ultimo, decisivo attacco.

Mentre le truppe inglesi entravano in città e raggiungevano le postazioni italiane, i soldati cercavano di abbozzare l’ultima estrema resistenza. Si lottava fianco a fianco, Granatieri e Alpini, Carabinieri e Zaptjé. Il sangue aveva per tutti lo stesso colore. Mario vedeva cadere i suoi commilitoni come mosche, nascosto dietro un muretto. Sentiva i proiettili fischiargli vicino. Riuscì a vedere oltre la strada uno spiraglio di salvezza, un camerata gli indicava la via di fuga per la ritirata: era arrivato l’ordine di ripiegare.

Mario contò fino a dieci, poi si lanciò di scatto oltre il muretto, corse il più veloce possibile, stando basso per ridurre il profilo utile al nemico, mentre il tiro italiano copriva la sua fuga.

Ancora pochi metri, poi un dolore improvviso al fianco sinistro, sotto l’ascella. Il fiato gli si fermò in gola, ruzzolò per terra. Il sangue usciva dalla bocca a colpi di tosse, Mario non riusciva a muoversi, poté solamente stendersi e voltarsi sulla schiena. Sentiva gli spasmi della morte che lo stava raggiungendo. Sopra di lui, il cielo era azzurro, neppure una nube. Il sole incendiava la terra battuta della strada. Faceva caldo, ma Mario iniziava a sentire freddo.

 

* * *

Nella scatola, oltre la cartolina, Francesco intravide una busta, diversa dalle altre per il suo aspetto particolarmente formale. Era stata aperta moltissimi anni prima, con palese delicatezza, come a voler dilatare il tempo per non conoscerne troppo presto il contenuto. Non era nonno Mario, a scriverla. Il mittente era impresso a caratteri di tipografia. Come se la Storia non fosse ancora scritta, portò le mani tremanti al lembo sgualcito e lo sollevò.

* * *

Il brigadiere Mario Petruzzi era ancora lì, steso sulla polverosa terra rossa, con la vista offuscata, i rumori ovattati degli ultimi colpi sparati e le urla dei feriti che imploravano aiuto. Pensò che aveva atteso a lungo la possibilità di combattere, pensò che era arrivato a farlo solamente quando ormai il suo Comando aveva abbandonato ogni speranza di vittoria, non solo: di sopravvivenza. Una leggera brezza spirò dal mare verso l’entroterra, lambendogli il profilo. Mario voltò il capo e vide correre intorno a sé uomini in divisa cachi, coi pantaloni corti e il turbante. Era la V Divisione di Fanteria indiana del generale Heath.

Riprese ad osservare il cielo. Quanto era bello, il cielo d’Eritrea! Gli tornò alla mente il sorriso di Hamid. Pensò a sua moglie Annarosa, al piccolo Filippo, di soli sei anni, che non aveva visto nascere e che aveva incontrato solamente una volta. Chiuse gli occhi ricolmi di lacrime, pensò a loro, credette di abbracciarli.

 

* * *

 

Un ritaglio di giornale giaceva ingiallito fra gli oggetti contenuti nella scatola dei ricordi. Si trattava di fatti giudiziari legati al periodo coloniale, una notizia del 3 maggio 1950. “L’ex ufficiale De Nardis, del contingente italiano in Eritrea, condannato per crimini di guerra sulla scorta di un memoriale redatto dal brigadiere Mario Petruzzi, nel 1937, determinante quanto la deposizione di uno dei carabinieri testimoni del fatto, reduce dell’epopea della nave Eritrea”. Mario non aveva mai dimenticato, sebbene si trovasse in teatro di guerra, di essere, prima che un militare e un soldato, un tutore della legalità, un carabiniere.

 

* * *

Un alito di vento spettinò i capelli di Mario, depositando una sottile patina di rossa terra d’Africa sul suo volto, come a carezzarlo, come ad affermarne l’appartenenza, come a manifestare la propria gratitudine, quella di una Nazione, di un Popolo, di una terra.

* * *

Francesco sorreggeva con mani tremanti la lettera contenuta in una busta dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, che annunciava il triste evento alla famiglia Petruzzi.

Ancora una volta, solamente fredde parole di circostanza.