Tutti noi che abbiamo cominciato la partita con una stecca storta, che volevamo così tanto e abbiamo avuto così poco, che avevamo intenzioni tanto buone e abbiamo fatto tanto male.

(L’assassino che è in me, Jim Thompson, Fanucci Editore, pag. 206)

 

Questo L’assassino che è in me, dell’alternante Michael Winterbottom, appartiene a quei film che vanno annoverati senza il minimo ripensamento alla schiera dei non riusciti. Alle prese con un mito della letteratura noir, quel Jim Thompson che Kubrick volle con sé alla co-scrittura di Rapina a mano armata, l’impressione è di assistere ad una trasposizione superficiale del romanzo e che in quanto tale non riesce minimante a cogliere l’essenza stessa del romanzo, quella cioè di una immersione totale in una mente anomala la cui logica è riconducibile alla totale assenza di freni inibitori nascosti dietro un’apparente candore, quella cioè di un tutore della legge. A questo si aggiunge una strategia narrativa che consiste principalmente nel mettere al corrente il lettore con largo anticipo dei delitti che saranno commessi, il che suscita un senso di ineluttabilità che incolla letteralmente alle pagine.

Nel delicatissimo, come sempre, transito dalla pagina allo schermo, la via seguita è quella più semplice, apparentemente a costo zero: dentro la facciata e fuori tutto il resto. Le conseguenze sono che Casey Affleck è Lou Ford senza esserlo, e il film intero è un oggetto inqualificabile da dove affiorano qua e là alcuni dialoghi del libro. Le polemiche che hanno accompagnato le scene più crude del film, quelle dove ad avere la peggio sono le due protagonisti femminili (Jessica Alba/Joyce Lakeland e Kate Hudson/Amy Stanton), non fanno altro che confermare la meccanicità della trasposizione.