Nel romanzo Il fioraio di Perón (Stampa Alternativa) Alberto Prunetti ha raccontato un pezzo di storia d’Argentina, terra di cui è grande conoscitore nonché notevole appassionato. Molti elementi concorrono a rendere sabrosa e interessante quest’opera, oltre a una scrittura fluida ma corposa, intensa, contaminata nei momenti opportuni dall’idioma locale.

C’è la vita, quella di Cosimo, un emigrante italiano, che in Argentina trova l’America attraverso il suo mestiere di fioraio. Non è un fioraio qualunque, ma uno che “sa pittare coi fiori” e perciò diventa fioraio ufficiale della Casa Rosada. Abituato ai capricci dei potenti, con una moglie che va in visibilio per Evita Perón, Cosimo è portavoce della diplomazia dei fiori nel cerimoniale di palazzo.

E poi c’è Alfredo, il nipote italiano che conosce questo zio attraverso lettere dall’ortografia presa a pugni, e che, alla morte dello zio, decide di partire per l’Argentina per risolvere il mistero della sua eredità.

L’incontro tra Alfredo e Buenos Aires avviene all’insegna di fotografie nitide e luoghi attendibili, reali, ora visitati, ora che mantengono i contorni dello scorcio.

Con una prefazione di Massimo Carlotto e una quarta di copertina di Valerio Evangelisti, Il fioraio di Perón, nato sulla scia di alcuni articoli scritti per Il Manifesto e per Carmilla on line è anche un grande omaggio alla Storia, quella grande, della gente comune, e al Sud America. In particolare, ai ritratti meravigliosi di Buenos Aires, come quelli sulla Boca, intrisi di odori forti e scene memorabili: «Gli piaceva bere fino a stordirsi mentre le mani di un musicista si arrampicavano sulle tastiere di un bandoneón, gli piaceva affacciarsi alle finestre da cui a turno i marinai vomitavano l’anima. Da lì entrava un odore rivoltante di alghe stagnanti mescolate alla ruggine delle ancore. Un lezzo di salmastro che penetrava le gomene delle navi e dava a tutto il quartiere un sentore particolare. Lamiere, sale, alghe e sperma. Ecco cos’era l’odore della Boca, un odore che per lunghi anni gli rimase addosso come unico lenitivo alla solitudine».

Quanto ti senti argentino?

Tanto quanto mi sento italiano. Ti rispondo in maniera un po' ironica, anche perché il mio senso di affiliazione nazionale è alquanto basso. Mi divido tra l'istanza “acrata” di essere “straniero in ogni luogo” e quella più internazionalista di “cittadino del mondo”. Ho vissuto a lungo in diversi paesi. Quando vivevo in Inghilterra la gente mi chiedeva se ero spagnolo, in India se ero australiano. In Francia non mi chiedevano niente. In Argentina indovinavano subito che ero italiano, ma pensavano che ovviamente vivessi lì da sempre. Tra tutti, gli argentini sono quelli che si sono sbagliati di meno, e quindi se per essere davvero italiano devo andare in Argentina, allora posso anche essere argentino. Aggiungo che Alfredo, il protagonista del mio romanzo, a tratti si sente un “tano”, un italiano d'Argentina, e a tratti si percepisce “gringo”, straniero. Ma nelle pagine iniziali del “fioraio” cito fedelmente una lettera del mio vero prozio Cosimo. Nel 1976, l'anno zero della dittatura, lui ha scritto una lettera a mia madre, commentando in cocoliche, in italo-argentino, una mia fotografia scattata quando avevo 3 anni: “Albertito sta fatto una meraviglia... La zia tiene tutte le fotografii i cuando viene in casa gli altri nipoti di parte di Lei ci li inzegna a tutti dandoci spiegazioni che il ragazzino della foto è il figlio della figlia di la sorella di Cosimo, così che è conosciuto da tutti i cuasi tutti diceno che non pare italiano, diceno che tiene faccia di argentino, di questa America povera”. Quindi se quel che conta è “poner la cara”... allora sono argentino, italiano, maremmano, rom, senza fissa dimora... boh! In definitiva cosa sono le identità nazionali? Per me invenzioni..

Se un argentino ti chiedesse di elencare le analogie, oggi, tra i due paesi?

Per farlo contento dovrei dirgli che ci sarà un default in Italia. Molti argentini vedono l'Italia come il loro passato e quindi si immaginano che l'Argentina sia il futuro dell'Italia. Ovvero assimilano il berlusconismo al menemismo e ci augurano una bella crisi come quella che è capitata loro nel 2001. È possibile. Io mi chiedo: gli italiani avranno la forza di rispondere alla crisi come hanno fatto gli argentini? Ovvero mettere da parte i politici col “que se vayan todos” e realizzare un laboratorio di autogestione grande quanto un paese: mutuo appoggio, autorganizzazione delle fabbriche, comitati vicinali di quartiere, mense popolari, addirittura ospedali autogestiti..

E le differenze?

Appunto: credo che gli italiani siano moralmente molto più frustrati da anni di delega a politici e starlette spettacolari della politica e dell'antipolitica... e che forse non riuscirebbero a gestirsi la propria vita e la microeconomia della vita quotidiana secondo parole d'ordine di autonomia e autogestione.

Hai scritto per il Manifesto e oggi scrivi per Carmilla: com’è l’informazione oggi in Italia?

Ultimamente mi informo sull'Italia leggendo perlopiù giornali stranieri on line. Non mi sento e non sono neanche un giornalista. Quando ho pubblicato sul Manifesto lo facevo da esterno, da Buenos Aires, per l'ultima pagina, quella dei reportage. Mi sembra che in Italia si scriva col copia e incolla delle notizie d'agenzia, incrociate con quel che arriva dalla questura. È la morte dell'informazione. Almeno in America Latina esiste ancora la tradizione del giornalismo d'inchiesta, il “periodismo de investigación” (penso a un nome come Horacio Verbitsky, e guardando al passato a Rodolfo Walsh, all'agenzia Prensa Latina, fondata da García Márquez e dal guerrigliero Jorge Ricardo Masetti... altra gente, altre latitudini...). Ma è anche una questione di apparati. Un amico fotografo che lavora in un quotidiano argentino è rimasto allibito dopo aver fatto un periodo di scambio in una redazione di un importante quotidiano italiano: qua scaricano le foto dai siti delle agenzie per 5 euro a download. In Argentina la sua redazione paga 30 fotografi che vanno in giro per il paese, ognuno con la Canon di ultima generazione acquistata dal giornale. Le foto e i reportage si fanno con le gambe, camminando, non esternalizzando e scaricando le cose da internet, dalle agenzie, e facendo copia e incolla...

In che senso si potrebbe “riformare” l’informazione per favorire il pluralismo?

Non me ne intendo. Continuo a lavorare con gli scrittori con cui mi sento complice, sognando un mondo nuovo e provando a costruire un immaginario d'opposizione antagonista all'esistente. Nel mondo dei miei sogni si potrebbe fare a meno di guardare i telegiornali.

Questa rubrica si intitola “I ferri del mestiere”. Quali “ferri” occorrono per raccontare quel pezzo di storia di un paese come l’Argentina?

Per capire una realtà non si possono leggere solo libri. Devi calarti in un contesto, parlare la lingua che si parla per strada, respirare l'aria di una città, percorrerne i viali, montare sugli autobus, discendere nella metropolitana, stazionare nei bar, partecipare agli eventi culturali, andare nelle manifestazioni di piazza. Poi è importante parlare con testimoni chiave di un'epoca, infilarsi nelle loro case, registrare e sbobinare. Poi ho preso appunti. Tanti, al volo. Anche “appunti visivi”. Fotografie. Per me, che sono anche un fotografo, la fotografia è uno strumento fondamentale perché attiva a distanza la memoria visiva. Non faccio foto “esteticamente suggestive”. Io sono uno scattinista dal punto di vista professionale e questo approccio lo replico nella documentazione fotografica per la scrittura. Scatto molte fotografie che mi servono per dare un carattere visivo alla mia scrittura. La reflex è il mio taccuino d'appunti. In Argentina ho scattato diversi rullini di diapositive che poi sono servite a delineare personaggi o a inserirli in un contesto che, pur sempre romanzato, fosse credibile dal punto di vista dell'ambientazione.

Il fenomeno del peronismo. Cosa contribuisce, nell’opinione pubblica, alla formazione e all’alimentazione di un mito?

Difficile rispondere sinteticamente. Il peronismo è un fenomeno squisitamente argentino e rimane oscuro a chi non conosca le dinamiche di quel paese. In Italia si presenta Perón come un dittatore, ma poi diventa difficile spiegarci la gioventù peronista che inneggiava al tempo stesso a Perón e al Che Guevara. Innanzitutto ci sono almeno tre periodi delle politiche di Perón, con oscillazioni ideologiche differenti. Poi c'è Perón e ci sono i peronismi. E ci sono peronismi di destra e peronismi di sinistra. Il peronismo di sinistra degli anni sessanta-settanta aveva diramazioni nella teologia della liberazione e nel guevarismo. Il peronismo di destra si è alleato con i cosiddetti “gorilla”, gli antiperonisti vicini all'oligarchia, per combattere il peronismo di sinistra. Così si spiega la repressione organizzata dell'ultima dittatura militare. Ma attenzione: c'è anche un antiperonismo libertario e di sinistra, vedi Julio Cortázar o lo stesso Osvaldo Bayer, o il primo Rodolfo Walsh, che poi diventa un peronista di sinistra ed entra nella formazione dei Montoneros. Insomma, la realtà argentina è complessa, e su questo dovrei tornare a esprimermi con più spazio in altre occasioni.

Quale sarà il tuo prossimo viaggio?

L'Italia è un ottimo paese da cui fuggire. Fino a qualche mese fa pensavo di tornare in Asia, forse in India, dove ho trascorso dieci mesi negli ultimi due anni, ma adesso mi vedo più facilmente in America Latina, direi Messico o Argentina.

Un saluto con una citazione dal tuo romanzo:

“Sistemando il suo ultimo vaso alla Rosada, pensò che tutto in realtà fosse stato un inganno, una cospirazione. Una mentira. Forse Perón non era tornato e mai sarebbe voluto tornare in quel paese triste e misero, in quell’America Povera. Perón, ne era sicuro, doveva avere i capelli tirati all’indietro, imprigionati in un elmo di gelatina e un sorriso largo e bianchissimo, e non poteva andare in giro circondato da fascisti e corrotti perché lui non era lì, Perón l’avevano visto che cantava assieme a Gardel un tango in un film in bianco e nero girato a Hollywood, aveva smesso di fare politica e andava in turné con Gardel, che non era morto a Medellín e aveva un cappello bianco e una rosa in bocca. E quella rosa gliel’aveva data lui, Cosimo Guarrata, il giorno che si ubriacò come un pazzo quando andò in pensione e lasciò il suo atelier nella Casa Rosada, il giorno in cui un impostore che diceva di chiamarsi Perón morì e lui non ne volle più sapere di fregature di politici ma si rinchiuse in un bar di San Telmo con Mariano e gli offrì da bere, una due, trenta volta, e questa volta ci imbrachiamo amico mio, gli disse, aprendo il portafogli e spianandolo sul banco del solito bar, dove bevve fino a star male, cantando tanghi fino a notte fonda, fino a quando lo portarono via, perché ormai se facevi troppo tardi veniva la polizia e ti portava via, e allora era meglio evitare di dar troppo nell’occhio e rincasare presto, pensò Mariano, spingendo quel vecchio tano pieno di vino che puzzava di garofani appassiti e piscio lungo le strade sporche di Buenos Aires.”