Di Gianni Simoni lo scorso inverno m’ero goduto la lettura di Commissario domani ucciderò Labruna, un romanzo che (nonostante il filone “commissario di provincia”, e/o affini, non sia tra i miei prediletti) aveva saputo coinvolgermi in modo piacevolmente inatteso. Lo aveva fatto per più ragioni, tra cui uno stile gradevole, l’ottima conduzione degli eventi e soprattutto la coralità delle indagini, che beneficiava di una correlata, ed assai efficace, galleria di personaggi.

Ho preso in mano quindi il suo ultimo lavoro (intitolato Lo specchio del barbiere, proposta sempre dalla TEA) con una certa aspettativa. Non sono rimasto deluso, per quanto in questo caso la trama sia più incentrata sulla figura di uno dei protagonisti: il magistrato in pensione Carlo Petri. Un protagonista che però riesce a tenere bene la scena, a farla sua senza debordare. Del resto, anche il resto della squadra investigativa della questura di Brescia gioca un ruolo, compreso il commissario Miceli. Ancora una volta, poi, le vicende narrate si mantengono sempre su piani di assoluta plausibilità, con un equilibrato spazio allo spessore umano di protagonisti e comprimari.

D’altronde, oltre alle doti di autore che rivela nei suoi romanzi, Gianni Simoni ha dalla sua l’esperienza dei fatti. Bresciano di origine, milanese d’adozione per motivi di lavoro, Simoni è (come Carlo Petri) un ex-giudice istruttore, attivo in indagini in materia di criminalità organizzata, di eversione, di terrorismo. E’ stato lui a sostenere  l'accusa nel processo d'appello per l'omicidio Ambrosoli e condurre l'inchiesta giudiziaria sulla morte per avvelenamento, in carcere, di Michele Sindona, il banchiere piduista che i meno giovani ricorderanno per il ruolo criminoso che ebbe nei legami tra finanza, politica e criminalità.

E’ quindi, lo ammetto, incuriosito sia dal suo presente di scrittore che dal suo curriculum di magistrato, che ho affrontato con molto interesse l’intervista che segue.

Caro Gianni Simoni, benvenuto su ThrillerMagazine.

La ringrazio per il benvenuto e per questa intervista, e ringrazio anche tutti coloro che avranno la bontà di leggerla.

Per quanto in misure e modi differenti, conformi al tipo di narrativa che si affronta, quasi ogni autore tende a portare nei suoi scritti anche il proprio vissuto, le proprie esperienze e conoscenze.

Nel suo caso, questo aspetto assume una rilevanza fondamentale. La sua carriera di magistrato, e l’impegno profuso in essa, evidentemente hanno sedimentato strati di esperienze nei quali sono germinati i semi che hanno poi portato ai suoi romanzi.

Non posso quindi non iniziare l’intervista in modo molto “classico, partendo cioè dalla sua biografia e dal suo ruolo nella magistratura italiana. Cosa ci racconta, in merito?

Nella mia quarantennale carriera in magistratura ho ricoperto, sempre nel settore penale, tutti i possibili ruoli: quello del Pubblico Ministero in primo grado; quello del magistrato giudicante; quello del giudice istruttore (una figura scomparsa con la riforma del codice ma che, a mio avviso, era la più”completa”.) Infine, quella di Sostituto procuratore generale a Milano. Ovviamente mi sono occupato delle più svariate indagini. Dai sequestri di persona a scopo di estorsione che negli anni Ottanta colpirono molti industriali bresciani o loro famigliari (ad iniziare dal primo, quando venne rapito il figlio di Luigi Lucchini, che fu Presidente di Confindustria; a una miriade di omicidi che potremmo definire “comuni”; al terrorismo (Brigate rosse e Prima linea), all’eversione nera. Ho poi sostenuto l’accusa in molti maxi processi di criminalità organizzata (riguardanti soprattutto la ‘ndrangheta che da circa un quarantennio ha affondato le sue radici a Milano e nell’hinterland e nelle zone di Lecco e Varese). Tutte esperienze che mi hanno segnato profondamente, anche se un posto di primo piano l’ebbe il processo per l’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli e l’indagine che mi venne affidata sulla morte di Michele Sindona nel carcere di Voghera, che mi tenne impegnato a tempo pieno per circa tre mesi e mi portò all’inevitabile conclusione che il finanziere non fosse stato ucciso, ma si fosse maliziosamente suicidato.

Nei suoi romanzi, lei è particolarmente attento ai personaggi, di cui fa emergere i vari profili caratteriali, rispetto a situazioni differenti, variabili. Ne consegue che anche la narrazione passa attraverso momenti e spunti diversi, dalle considerazioni personali di un Petri agli scambi tra l’accoppiata Grasso e Tondelli, dalla drammaticità di alcuni fotogrammi alla spensieratezza o all’ironia di altri…

E’ verissimo. Il dramma, la tragedia, ma anche i momenti che qualche volta sfiorano il comico o il grottesco. La vita è fatta di tutto questo. E’ la realtà e alla realtà ho cercato di essere aderente.

Lei è Bresciano, ma trapiantato da lungo tempo a Milano. Ha deciso di ambientare i suoi polizieschi a Brescia più per omaggiare la sua città di nascita, o più perché ritiene, come altri suoi autori, che la provincia italiana sia uno scenario perfetto per un certo tipo di narrativa gialla e noir?

Non ritengo che la provincia, che indubbiamente non è priva di fascino, debba necessariamente essere lo scenario perfetto. Ho scelto Brescia solo perché sono bresciano e in quella città ho trascorso la mia giovinezza e molti anni della mia professione: quella appunto di giudice istruttore, un magistrato che lavorava a stretto contatto di gomito sia con il P.M. sia con la Polizia. Non si tratta quindi di un omaggio alla mia città d’origine ( nei cui confronti sono anche abbastanza critico ), ma del fatto di muovermi, sia pure in chiave narrativa, in un ambiente che mi è stato molto familiare.

I suoi tre romanzi hanno gli stessi protagonisti principali, la stessa “squadra”. Ma il primo “Il mattino d’ottobre”, si incentra principalmente sul commissario Miceli. Chi è Miceli? Quale indagine affronta in quel romanzo?

Miceli è un vecchio commissario, un uomo un po’ all’antica, che conosce bene il suo mestiere, ha un ottimo rapporto con i componenti della Squadra mobile che dirige e si muove rispettando le regole. Quello che potremmo definire un galantuomo. Nel primo romanzo  affronta una serie di omicidi a prima vista inspiegabili, anche perché le vittime sono tra loro molto diverse, anche socialmente.

Solo a poco a poco il commissario, con l’aiuto dell’altrettanto anziano ex giudice istruttore, al quale è legato da un antico vincolo di amicizia e di stima reciproca, riuscirà a scoprire il filo che lega quelle morti e, quindi, il colpevole. E con il commissario lo scoprirà il lettore, al quale, come in tutti i miei romanzi, non si riserva una sorpresa finale ( il deprecabile coniglio estratto dal cilindro ), ma si offrono, ovviamente con cautela, elementi  che lo potrebbero anche condurre alla soluzione del caso. Investigatore e lettori, potremmo dire, viaggiano quasi di conserva.  Dico, per inciso, che anche questo primo romanzo, verrà riedito dalla TEA.

 “Commissario, domani ucciderò Labruna” è invece un romanzo estremamente corale, dove Miceli recita solamente una delle parti. Ed è proprio la presenza attiva  ed equilibrata di tanti protagonisti a costituire un punto di forza specifico, che a mio avviso fa gustare questo lavoro in modo particolarmente incisivo.

Il romanzo è nato proprio con l’idea di creare un ambiente di trama idoneo a metterli tutti in pista quasi sullo stesso piano, o invece lei ha lavorato sulla vicenda e l’azione degli attori è stata naturale?

Nel secondo romanzo (“Commissario domani ucciderò Labruna) l’azione è davvero corale e proprio questo interagire dei vari personaggi (dal commissario, all’ultimo degli agenti) potrei dire che mi è venuto naturalmente. Anche frutto di un’esperienza giudiziaria che, ovviamente, ho messo a profitto.

“Lo specchio del barbiere”, il suo ultimo libro, pone invece in primo piano la figura di Carlo Petri. Al quale, presumo, lei affidi molto di se stesso…

E’ vero. Nell’ultimo romanzo (“Lo specchio del Barbiere”) Carlo Petri è in primo piano e la Polizia ha un ruolo, certamente non secondario, ma non risolutivo. E’ la storia che lo impone. Nel romanzo che, sempre per la TEA uscirà il prossimo marzo, si ritornerà invece  a un’azione corale, in cui tutti offrono il proprio apporto. Non posso negare che  nella figura dell’ex giudice Petri vi sia molto di autobiografico, ma soprattutto nel suo quotidiano, nel modo di rapportarsi con gli altri (ad iniziare da Anna, la moglie), nei suoi vizi (molti ) e in qualche sua virtù.

Carlo Petri non si risparmia in critiche, su quella che è la situazione del nostro paese.

Certamente. Petri è una persona con le idee molto chiare e l’autore, che con Petri ha molti tratti in comune, non disdegna dal prendere posizione. Per me lo scrivere è anzitutto un grosso divertimento, che non ti impegna troppo, che non ti impone di metterti in gioco più di tanto, ma che, nello stesso tempo, ti permette anche di far capire da che parte stai, cosa che in un Paese come il nostro, in questo momento, mi pare quasi obbligatoria. E direi che dopo un quarantennio di “doveroso silenzio”, quando ritorni ad essere un comune cittadino te lo puoi consentire.

Possiamo anticipare che il lettore si chiede fino all’ultimo quale riferimento il titolo abbia rispetto al testo?

Lo si scopre nelle ultime due pagine. Come spesso accade anche nella vita può accadere che abbiamo tutto sotto gli occhi e potremmo essere in grado di leggerlo, solo che riuscissimo a superare quella distorsione che appartiene a un’immagine riflessa da uno specchio.

Leggendo romanzi di autori che non hanno, come lei, un’esperienza diretta e approfondita in campi pertinenti la magistratura, le strutture di polizie, le indagini e quant’altro, le capiterà di individuare errori di varia natura e portata. Quali sono le sue reazioni in tali casi?

Sostanzialmente di benevolenza, a patto che si tratti di errori marginali e non divengano fonte di cattiva informazione o di fraintendimenti per lettore, che invece, in questo come in altri campi, ha il diritto/ dovere  di possedere idee chiare e precise.

I commissari, o figure “narrativamente” affini, si sono moltiplicati in questi anni, nel giallo italiano. Con risultati ovviamente vari.

Oltre ad essere un autore, lei è sicuramente anche un lettore. Se dovesse consigliare un giallista italiano?

In questa stagione della mia vita i gialli preferisco scriverli che leggerli. Prediligo le riletture (fin che ne sono in tempo ): Cechov. Gogol, Turgheniev. Dickens, Sthendal. Se dovessi indicare un giallista italiano indicherei Camilleri, soprattutto per il linguaggio che si è inventato e che, secondo me, costituisce il 50% del fascino delle sue storie. Se invece alzassi gli occhi oltre confine non potrei certo ignorare il grande Simenon e l’Ed Mc Bain dell’87° distretto.

Vogliamo ricordare che lei ha redatto, in collaborazione con Giuliano Turone, anche un saggio intitolato “Il caffè di Sindona”?

“Il caffè di Sindona” venne pubblicato lo scorso anno da Garzanti e lo scopo che mi indusse a scriverlo non fu tanto quello di “convincere” della bontà delle conclusioni a cui ero arrivato (nessun provvedimento giudiziario può avere la pretesa di confiscare le opinioni altrui), quanto soprattutto di “informare”, rendendo pubblici gli atti della mia inchiesta, in modo che uno dei piccoli misteri italiani del dopoguerra potesse essere rivisto alla luce delle risultanze oggettive dell’inchiesta stessa.

E’ già al lavoro su un altro romanzo?

Come ho già detto la Tea è già in possesso del nuovo romanzo che uscirà il 10 marzo e del quale posso anche anticipare il titolo “La morte al cancello”. Per quello ulteriore, che dovrebbe uscire a ottobre, la mia casa editrice sceglierà tra un manoscritto che è già in suo possesso e il romanzo che proprio in questi giorni sto ultimando.

Allora restiamo in attesa di leggerlo, visto che questo “Lo specchio del barbiere” già ce lo siamo gustato. Grazie, e alla prossima! J 

Grazie a lei, augurandomi che vi sia effettivamente una prossima.