Alla lunga, il mestiere del sicario stanca. Anche stavolta, un po’ come accade ad un altro sicario costretto suo malgrado a tornare alla vecchia attività (Revenge di Johnnie To), Jack/George Clooney, sicario in The American, vorrebbe smettere ma invece deve continuare a fare il suo sporco mestiere per aggiungere ancora un po’ di vita a quella che altri volentieri gli accorcerebbero.

Anton Corbijn, alla seconda regia cinematografica (dopo il felice esordio con Control, la storia, in B/N, di Ian Curtis, cantante dei Joy Division), forse nutre troppo poco interesse ad un certo tipo di cinema, il thriller in questo caso, per riuscire ad infondervi un tocco di originalità, mentre riguardo alla sua attività di fotografo e autore di videoclip non si discute (U2, Nirvana, Coldplay tra i suoi “clienti”).

Va da sé che il risultato sia tutt’altro che lusinghiero: riprese quasi sempre da cartolina, molte incongruenze (quattro morti in un paesino e neanche un poliziotto in giro), dialoghi da far cadere le braccia (pure quelli dai quali ci si aspettava di più, cioè tra parroco e killer). Per fortuna (o forse no?) Clooney sembra non accorgersi della mediocrità dell’operazione. Riesce a calarsi in un personaggio anomalo per i suoi standard (per trovarne uno simile occorre risalire al 2003 con l’assai riuscito Confessioni di una mente pericolosa dove, si ricorderà, avvelenava nientemeno che Julia Roberts…). Trova la quadra erigendo un’enorme distanza tra lui e il resto del mondo, come ci si aspetta da chi sa benissimo di non potersi fidare di nessuno.

Tutto il resto, compreso un finale molto banale, si dimentica appena fuori dalla sala.