La Lindau l’ha capito bene: Sir Hitchcock non invecchia mai. L’interesse intorno al Maestro inglese del brivido sembra non diminuire negli anni, al contrario cresce insieme a un sempre più nutrito numero di fan, cinefili e storici di una delle personalità cinematografiche più celebri della storia del cinema. Non ci sono dubbi dunque che riuscirà a riscontrare il favore del pubblico questa seconda edizione del saggio La finestra sul cortile, scritto con precisione e asciuttezza di linguaggio da Cosetta G. Saba, docente di Semiologia del cinema e degli audiovisivi all’Università di Trieste. Si tratta di un encomiabile lavoro di analisi che s’inserisce perfettamente nell’apprezzata collana Universale Film della nota casa editrice torinese che vanta un’opera collettanea di grande pregio storiografico. L’autrice non si concentra sul processo di contestualizzazione del film-essai del regista, che avrebbe potuto confinare l’esame del film riducendone la prospettiva: il suo studio, scrupoloso e scorrevole, si focalizza sulla tecnica registica e sugli strumenti narrativi che fecero della forma filmica hitchockiana un apparato metacinematografico di originale e notevole spessore. Attraverso un utilizzo oculato e ambizioso il cineasta britannico riuscì a catturare il consenso del grande pubblico e quello della critica, che ancora oggi non esita a incensarlo quando possibile, con un’operazione raffinata di sottrazione alla mera convenzione rappresentativa.

La finestra sul cortile in questo senso costituisce per Hitchcock una sfida, non solo “tecnica”, giocata mettendo sul tavolo del regista e dell’autore tutti i mezzi disponibili per vincere: l’autrice sottolinea come il grande Hitch riesca a evitare la facile trappola di un linguaggio didascalico incastrando esattamente lungo l’asse narrativo un montaggio funzionale come un prolungamento dell’occhio stesso, della macchina da presa. In questo modo si sovrappongono simultaneamente come a riflettersi lo sguardo del regista e dello spettatore, che riesce a sentirsi coinvolto mediante il meccanismo della doppia identificazione (con il personaggio di Jeff, costretto a vedere in uno “stato d’impotenza motrice”) che il regista conosceva da grande esperto della sua arte e che faceva esalare dal corpo vivo della sua opera. La riflessione sul cinema nel cinema di Hitchcock non intacca affatto la fruibilità del pubblico, che anzi è chiamato a rispondere a una nuova concezione del cinema che si attorciglia su se stesso senza perdere mai intensità né assottigliarsi lungo la sinistra linea della suspense. L’istanza della ricezione, definita nella “focalizzazione spettatoriale”, sembra anzi una priorità del regista che “costruisce il proprio racconto attraverso strategie enunciative che determinano la mise en abime delle sue stesse procedure narrative discorsive”: Hitchcock attribuisce un ruolo attivo al suo spettatore e solletica la sua attenzione sviluppando l’astuta tecnica di una detection scoperta, portandolo a conoscenza di quei famosi MacGuffin intorno ai quali si scioglie, anticipato, il mistero. E l’abilità sta nella capacità di riuscire, mentre stringe questo patto tacito tutto personale con la sua platea, a “porre lo stile cinematografico prima del contenuto”, come dimostra l’indimenticabile sequenza dell’intrusione di Lisa nell’appartamento di Mr. Thorwald/ Raymond Burr.

La lettura profonda dell’opera “doppia” di Hitchcock riesce in poche pagine ad affascinare il lettore anche meno colto verso una visione totale di un film che elabora una autentica concezione di cinema avvalendosi di tutti i suoi strumenti e scardinandone le funzioni (vedi le “false soggettive” citate). Nello stesso tempo il testo ripropone agli addetti ai lavori stimolanti snodi della ricerca critica intorno alle dinamiche dello sguardo che il regista potenziò con maestria e intorno alle quali ogni volta, scrive la Saba, non possiamo che trarre “conclusioni provvisorie” nel rispetto di un’opera che non smetterà mai di suscitare autentica, pura vertigo.

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